LA LINEA D'OMBRA
ALESSANDRA MASTRODONATO
Venire alla luce
Già Platone, più di due millenni fa, diceva: «Possiamo anche perdonare un bambino quando ha paura del buio, ma la vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce».
Quanto può essere difficile “venire alla luce”? Quanta fatica ci può costare uscire dal bozzolo forse un po’ angusto, ma tutto sommato rassicurante della nostra routine per “rinascere a nuova vita”?
Lo sanno bene i bambini, per i quali il travaglio ed il parto, con l’abbandono forzato del grembo materno, rappresentano un momento di stress particolarmente intenso. Ma lo sanno bene anche i giovani adulti, che spesso sperimentano con dolore la paura della libertà e devono fare i conti con la difficoltà di tirarsi fuori dal buio dell’abitudine e dalla prigionia del fatalismo. Tuttavia, mentre per il neonato si tratta di un “passaggio” naturale e inevitabile, la stessa cosa non può dirsi per l’adulto, per il quale “venire alla luce” è sempre frutto di una scelta.
Venire alla luce significa, infatti, abbandonare la propria comfort zone, aprirsi al mondo e lasciare che la vita irrompa nei nostri polmoni, nei nostri muscoli, nei nostri occhi, finanche nei pori della nostra pelle. Significa emergere dalla penombra in cui ci siamo rintanati per curare le ferite del cuore e correre il rischio di lanciarci di nuovo alla scoperta di quel cielo sconfinato che sinora abbiamo appena osato immaginare, limitandoci ad osservarlo da lontano attraverso quelle poche fessure rimaste, quasi inavvertitamente, aperte nel muro delle nostre paure. Significa attraversare il nostro dolore, accettare che ci trasformi nel profondo, per riuscire a innamorarci ancora della vita e dare un senso rinnovato alla nostra esistenza.
Non c’è dubbio che tutto questo rappresenti una “rinascita”, un decisivo passo in avanti nel cammino verso l’adultità, che ci permette di superare gli inevitabili momenti di oscurità con cui ci ritroviamo spesso a fare i conti. Ciò nondimeno, talvolta, ci sembra più facile adattarci a questa condizione di sospensione esistenziale, abitarla a tempo indeterminato, al punto di dimenticarci quanto fosse bello lasciarci accarezzare dai caldi raggi del sole e assaporare il gusto intrepido della libertà. È quello che accade ogni volta che ci lasciamo sopraffare dalle delusioni, dalla sofferenza, dalla malinconia e che, di fronte all’incapacità di scorgere nel buio impenetrabile della nostra notte interiore i tanti segni di luce che ci vengono quotidianamente offerti da chi ci sta accanto, giungiamo alla conclusione paradossale che gli altri siano un ostacolo, anziché una condizione fondamentale per vivere un’esperienza autentica di libertà.
Ma, per quanto possa essere doloroso riabituarsi a vivere nella luce – come quando, dopo essere rimasti a lungo nell’oscurità, i nostri occhi fanno fatica ad adattarsi ad un’improvvisa situazione di luminosità intensa – se vogliamo diventare ciò che siamo chiamati ad essere, dobbiamo abbandonare ogni paura e lasciare che anche le ferite che portiamo incise nell’anima si trasformino in altrettante feritoie da cui il chiarore del giorno possa tornare a fare capolino nella nostra vita. Perché, come aveva compreso già Platone più di due millenni fa, «possiamo anche perdonare un bambino quando ha paura del buio, ma la vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce».
L’uomo che rimane al buio troppo a lungo
finisce per parlare con l’oscurità,
ha una mano sempre pronta per coprirsi gli occhi
quando la luce tornerà.
Da sotto le lenzuola il giorno fa paura,
ci si abitua ad ogni condizione,
anche alla prigionia.
Come il lupo chiuso in gabbia teme la sua libertà,
se la gabbia si aprirà,
e il re nel suo castello, spaventato
dal pensiero di un amore folle,
chiude fuori a chiavistello la sua prateria,
perché innamorarsi è un po’ cadere da cavallo,
e sì, che lui lo sa…
Io dico: mai più
ai miei occhi spenti,
mai più
questi gesti finti,
mai più
questa mia obbedienza.
Io dico: mai più
tutti i pori aperti,
mai più
luci sempre accese,
mai più
questa confidenza…
La mano sotto il gesso sogna
il movimento delle dita
ed immagina la pelle su cui poi si poserà,
ma si sa che una frattura resta nella testa
come una ferita,
anche se il gesso se ne va.
Il prigioniero guarda in alto una fessura
per cercare il cielo
e, protetto dalle mura, sente il suono
delle bombe pochi metri in là,
e si chiede se alla fine non sia più sicuro
rimanere dentro,
quando la pace tornerà,
se ritornerà…
Mai più
ai miei occhi spenti,
mai più
questi gesti finti,
mai più
questa mia obbedienza.
Io dico: mai più
tutti i pori aperti,
mai più
luci sempre accese,
mai più
questa confidenza…
(Niccolò Fabi, L’uomo che rimane al buio, 2022)