DON BOSCO NEL MONDO
CHRISTOPH LEHERMAYR (DA DON BOSCO MAGAZIN) TRADUZIONE DI M. PATARINO
Tra mezzaluna e croce: Don Bosco a Istanbul
Giovani impossibilitati a partire, credenti perseguitati e un luogo di rifugio nel mezzo di una metropoli che conta milioni di persone. Un sacerdote dell’Alta Baviera è arrivato nel Bosforo e ha portato luce sui volti e fatto suonare un campanile.
C’è BUONA birra. La “Efes” turca e la “Budweiser” americana. Gli altoparlanti fanno risuonare “I’m with you” di Avril Lavigne. I ragazzi stanno vicino alla griglia e sorvegliano attentamente le polpette, che qui si chiamano kofte, per evitare che si brucino. Tutti scherzano e in questa serata dal clima mite raccontano gli episodi che hanno caratterizzato la loro giornata. Nel frattempo, le ragazze cospargono di spezie orientali le insalate che hanno preparato per servirle insieme alla carne alla griglia. Tutti ridono e scherzano, ma all’improvviso tacciono, si siedono ai tavoli e giungono le mani per pregare. Monsignor Lorenzo, il più importante ministro cattolico di Istanbul, spiega: «La vita di comunità ci unisce questa sera. Dovrebbe aprire i nostri cuori all’ascolto reciproco e a percepire le preoccupazioni degli altri». Questa sollecitudine è ben presente qui, come emergerà in seguito. I presenti recitano il “Padre nostro” in inglese e tradotto in turco e in arabo.
I Salesiani lo chiamano “oratorio”. Nello spirito di don Bosco, si gioca a calcio e si prega, si trattano temi spirituali e si parla degli avvenimenti quotidiani. Nel corso della serata don Simon Härting interviene nei piccoli gruppi. Vedendolo con una polo bianca e pantaloncini neri mentre gesticola, ride, ascolta, dà consigli e parla, lo si potrebbe considerare uno che fa parte del suo gregge, non il pastore. Probabilmente i pedagoghi definirebbero ciò che si compie in questo cortile al centro di Istanbul “lavoro con i giovani a basso impatto”. Don Simon e i suoi confratelli sono semplicemente presenti, senza compiere grandi cose. E sono necessari, perché i giovani adulti sono come piccoli pesci colorati in un lago troppo grande. Sfrecciano in ogni direzione, entrando in profondità sconosciute, ma non sanno quale sia la loro destinazione e quando la raggiungeranno.
“Ciò che è successo a Mosul non può essere descritto con parole normali”
Ci sono i fratelli Andro e Marcel. Uno ha i capelli ricci e la chitarra, l’altro ha lo sguardo di una persona che ha già visto molto. Forse troppo. Entrambi provengono da Baghdad, la capitale dell’Iraq. Più tardi, quando all’interno del cortile la musica costruisce una notte piena di bei ricordi, Marcel racconta quali esperienze lui e suo fratello abbiano alle spalle. «Siamo cristiani caldei e non è esagerato dire che abbiamo avuto una bella vita. Non ci mancavano denaro e lavoro, prima che tutto cominciasse a crollare». Marcel ha 24 anni e parla dell’occupazione americana, dell’incertezza, degli attacchi e di quella che gli articoli di politica sui giornali definirebbero “crescente intolleranza religiosa”. Per Marcel e la sua famiglia è stata la fine della vita che avevano vissuto fino a quel momento.
Le milizie sciite presero d’assalto gli appartamenti e le case, arraffando tutto ciò che potevano portare con sé. Dissero: «Questa volta prenderemo solo le vostre cose, ma se al nostro ritorno sarete ancora qui, perderete anche la vita». Quindi la famiglia dei due giovani fuggì. Via da Baghdad, in un luogo sicuro. La famiglia si è spostata nel nord del Paese, nelle zone controllate dai curdi e considerate relativamente sicure e stabili anche dopo l’invasione statunitense. La città di Mosul in particolare è diventata luogo di rifugio per molti cristiani provenienti dal sud, fino a quando i guerrieri del terrore dell’autoproclamato “Stato islamico” hanno invaso il territorio. «Ciò che è successo dopo a Mosul non può essere descritto con parole normali», dice Marcel. Dopo una pausa riprende: «Forse si possono usare termini biblici, perché era già scritto che noi, come cristiani, saremmo stati perseguitati e messi alla prova». La famiglia è dovuta fuggire di nuovo. Questa volta rimanevano solo il confine e il paese vicino, la Turchia. «Avevamo perso tutto, eravamo stranieri e l’abbiamo subito percepito. All’inizio siamo stati in Anatolia, dove non ti consiglierei come cristiano di mostrare apertamente la tua croce, se vuoi vivere tranquillamente la tua vita di ogni giorno. Solo ora, qui a Istanbul, va molto meglio».
In qualche modo l’oratorio è diventato una specie di nuova casa per i giovani.
La storia di Marcel è simile a quella di tutti i giovani e di tutte le giovani che si trovano nel cortile dei Salesiani, che potrebbero sembrare semplicemente ospiti invitati a una bella grigliata. Sono invece tutti cristiani del Medio Oriente e sono rimasti bloccati in questa città ubicata alle porte tra l’Asia e l’Europa in un mondo che sembra privo di ragione. Andro, il fratello di Marcel, dice: «Sinceramente sarei andato via, se non ci fossero stati don Simon e i suoi confratelli. L’Oratorio è diventato per noi una specie di nuova casa». È un luogo in cui i giovani possono tornare. Sempre. Soprattutto nei momenti in cui questa megalopoli minaccia altrimenti di inghiottirli.
Istanbul è infatti cambiata, è cresciuta a dismisura e, data la situazione caotica dell’intera regione, è diventata un centro di profughi. La Turchia ha accolto ufficialmente quattro milioni di persone provenienti dalla sola Siria da quando la guerra ha fatto precipitare il vicino Paese nel baratro. Anche prima che i talebani prendessero il potere, il numero di arrivi dall’Afghanistan era in aumento. A differenza dei Siriani, gli Afghani non fruiscono dello status di protezione ufficiale nel Paese. Questo fatto e la crisi economica della Turchia, insieme al crollo della valuta e ai prezzi alle stelle inaspriscono i fronti. In alcune città sono scoppiate le prime rivolte contro gli immigrati. Sui social stanno circolando video di cacce all’uomo contro i rifugiati. Chi può e ha abbastanza denaro si affida a trafficanti che promettono la salvezza in Europa e varie persone rischiano la vita durante le traversate.
Una vita in attesa
E Andro, Marcel e gli altri? Aspettano. Lo fanno da anni. Mentre in questo periodo milioni di profughi sono passati da Istanbul per raggiungere illegalmente la vicina Grecia e quindi l’Unione Europea, i cristiani di cui si prendono cura i Salesiani che collaborano con don Simon sono rimasti. Perché? «Perché non vogliamo partire illegalmente, ma con documenti, un invito e dunque la possibilità di una nuova vita regolare», dice Marcel. Le famiglie sono ufficialmente registrate come tali presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e sono in attesa di un invito da uno dei Paesi partecipanti al programma di distribuzione. Tra questi Paesi si annoverano gli Stati Uniti e il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia, che sarebbe la destinazione che Marcel sogna. «Abbiamo partecipato a colloqui ed è stata compiuta una valutazione sul nostro conto, tutto è regolare, ma nessuno di noi sa quando arriverà la chiamata decisiva e potremo partire», dice Marcel. «Potrebbe accadere in qualsiasi momento, o potrebbero volerci anni. Almeno è stato così per alcuni amici». Come si può affrontare una vita in attesa? Marcel riflette e indica la casa salesiana, il suo cuore e il cielo. Mostra poi l’interno del polso, dove un tatuaggio dice in caratteri arabi: «Senza l’oscurità, non vedrai mai le stelle».
È una situazione difficile, anche per don Simon. Lavora con i profughi giorno dopo giorno. A volte, come ora, organizza una grigliata serale con loro. Al mattino lui e i suoi confratelli si prendono cura dei bambini delle famiglie. E di pomeriggio si formano file di persone in grave difficoltà che i Salesiani ricevono e che ormai non riuscirebbero a sopravvivere in questa città senza l’aiuto dei Salesiani. «Certo, non è sempre facile. Spesso mi trovo di fronte a storie di sofferenza e di rinunce, ma vorrei che i giovani che sono in qualche modo ai margini sentissero che qualcuno si prende cura di loro, li difende, li ascolta e si impegna anche in ambiti di cui nessun altro si interessa. Questa era la preoccupazione principale del nostro fondatore, don Bosco, ed è anche la mia».
«Lo stupore è una delle parole centrali della Bibbia»
Il fatto che don Simon, proveniente dall’Alta Baviera, sia venuto qui nel Bosforo è probabilmente una coincidenza. In realtà si vedeva impegnato nella pastorale dei laici, dopo gli studi, e ha rischiato di allontanarsi completamente dalla Chiesa, durante un soggiorno in Vaticano: «Tutta quella confusione da parte dell’apparato clericale mi dava sui nervi, perché mi pareva che non avesse nulla a che vedere con la vera fede». Solo con i Salesiani, che si rimboccano le maniche, affrontano le cose e sono in prima linea nel lavoro con i giovani, ha sentito di aver trovato una risposta ai suoi dubbi. Il fatto che il suo primo incarico in una casa per giovani in situazioni difficili in Germania sia stato subito seguito da una missione a Istanbul è una prova e nello stesso tempo un’opportunità per questo sacerdote di 38 anni. Qui svolge tante funzioni: offre un grande aiuto e un orecchio disponibile ad ascoltare per i rifugiati dell’oratorio. È un pastore di anime per la comunità di lingua tedesca, a volte va in bicicletta o in nave a visitare il suo gregge nella metropoli tentacolare. Ed è anche un sacerdote che celebra messe per le comunità di lingua straniera della città nella magnifica Cattedrale dello Spirito Santo di Istanbul. Nella sua stanza, in convento, è appeso un grande poster. Riporta la scritta: stupore. «È una delle parole centrali della Bibbia», dice don Simon. «Molte volte ricorre questo contenuto: e poi arrivarono i discepoli e rimasero stupiti». A Istanbul si può imparare bene proprio questo stupore. Ad esempio, quando gli agenti di polizia turchi entrarono nella cattedrale accompagnati da un ministro degli Esteri africano che voleva pregare qui, prima si guardarono intorno con molta curiosità, poi si fecero fotografare con entusiasmo con il vescovo e poi gli chiesero di alzare la croce per regolare l’immagine.
Solo una cosa ha rattristato don Simon, che forma la comunità Don Bosco di Istanbul insieme a confratelli provenienti dall’Italia, da Haiti e dal Ghana. Accompagna in chiesa, sale le scale, toglie le ragnatele e infine attraverso un portello esce sul tetto. E improvvisamente Istanbul è sotto di lui. Una visione divina e, in definitiva, un luogo che ispira timore, perché i segni del tempo hanno danneggiato il campanile della cattedrale, costruita nel 1846. Il gesso si è sbriciolato, non si poteva nemmeno escludere un crollo. Don Simon si è seduto e ha scritto lettere: richieste di preventivi e di donazioni. Le campane delle chiese di Istanbul dovrebbero funzionare, poiché molti in Europa sono consapevoli del ruolo di questa città come luogo centrale della cristianità.
Quando è ormai buio da tempo, termina anche l’oratorio nel cortile del centro pastorale. Le giovani donne e i giovani uomini escono lentamente. Per strada continuano a chiacchierare e a ridere tra loro prima di perdersi di nuovo in questa città gigantesca per qualche tempo. Ma prima di allontanarsi possono guardare la torre della cattedrale appena ristrutturata. Anche nel buio della notte la croce brilla luminosa lassù.