LA NOSTRA STORIA
E.B
Salvo D’Acquisto è anche nostro
Prima di diventare eroe e medaglia d’oro, prima di essere immortalato nel bronzo, fu anche ragazzo, studente e calciatore in erba nei cortili salesiani di Napoli-Vomero. E prima ancora, fu un frugolo nell’asilo delle fma. Perché non ricordarcene?
la signora Ines Marignetti, la mamma, a 81 anni, era lucida, serena e forte. Ricordava bene il suo Salvo, ragazzo del ginnasio: «Andava dai Salesiani, non era interno ma esterno. Ci andava la mattina e tornava alla sera: stava tutto il giorno lì, fino alle sette, quando suo padre andava a ritirarlo. Che cosa faceva? Andava a scuola, poi a refezione, poi al doposcuola, e giocava. I Salesiani guardavano i ragazzi giocare, facevano tanti giochi. A lui piaceva molto il pallone: giocava con i preti, loro pure erano giovani, gli piacevano gli sport».
Salvo D’Acquisto, questo ragazzo che nel 1934-36 giocava al pallone con i giovani preti del Vomero, è ora reputato un eroe (gli hanno dato la medaglia, gli hanno fatto il monumento, gli hanno dedicato scuole e vie delle città, hanno girato film sulla sua vita).
Un sopravvissuto, Angelo Amadio, allora diciassettenne, che lo vide morire, ancora recentemente ammetteva: «Quel gesto, proprio non so se sarei riuscito, io, a compierlo. Vivere piace sempre, ma soprattutto quando si è giovani, e Salvo non aveva ancora 23 anni. No, un uomo comune non poteva fare quel gesto…».
Era il 22 settembre 1943, alcuni soldati delle famigerate SS a Torre di Palidoro frugavano in una cassa piena di cartaccia. Lì dentro c’era una bomba, i soldati erano avvinazzati, la bomba esplose e caddero riversi: un soldato morto e due feriti gravi. Qualcuno doveva pagare, e quel qualcuno fu, liberamente, volontariamente, Salvo D’Acquisto.
Quando il carico delle formiche è troppo pesante
Lo ricordano: volto aperto e franco, con candore quasi infantile. Occhi limpidi e sereni, sguardo fermo d’una purezza cristallina. Sobrio nei gesti e nelle parole, di modi accoglienti, e sempre educato. Di indole mite, portato per natura alla contemplazione e al raccoglimento, appassionato per lo studio.
Era buono, ricordava la mamma: «La bontà era una sua particolare virtù; e quando poteva compiere una buona azione, sapeva poi anche essere discreto». E aggiunge: «Non conobbe agiatezze, non ebbe perciò tanti vizi o capricci. Vivendo così nel sano ambiente della sua famiglia religiosa e onesta, formò il suo carattere serio e riservato».
Gli piaceva leggere: «Tutti i soldi che gli donavano li usava per comperare libri». Gli piaceva studiare: «Negli studi riusciva bene». Gli piaceva cantare: aveva una bella voce, cantava nel coro dell’orchestra Scarlatti di Napoli. Gli piaceva fischiare: «A casa fischiava tutto il giorno».
La scuola lo maturò. «Appare verosimile – ha scritto il generale Filippo Caruso alludendo al ginnasio frequentato dai Salesiani – che l’assiduità della preghiera e della meditazione religiosa abbia notevolmente contribuito a maturarne lo spirito, ad affinarne la sensibilità, a rafforzare in lui quell’abito di semplicità e di purezza che fu nella sua breve vita come un noviziato di santità».
E a 18 anni, terminato il liceo, Salvo volle essere carabiniere secondo una fiera tradizione di famiglia: come il nonno materno, e come diversi zii. Ricettivo verso gli ideali, Salvo che «onorava la sua patria come la sua famiglia» accettò la disciplina non come una condanna da sopportare con amara rassegnazione, ma come condizione normale di vita, liberamente e serenamente accolta.
Al loro posto, accanto alla loro gente
Ed ecco i tempi difficili che metteranno a dura prova la sua fede civica e cristiana. La guerra, in cui compie il suo dovere di combattente sul fronte libico. Poi, per rendersi più utile, il corso di sottufficiale e il relativo esame a Firenze. Può passare da Napoli a salutare i suoi.
«Signora Ines – chiederanno un giorno alla mamma – qual è il più bel ricordo che lei conserva di Salvo?». «Quando tornò dall’Africa e passò a casa: mi strinse forte che quasi mi stritolava tra le sue braccia. Poi è andato a fare il corso, e non ci siamo visti più».
Nel settembre 1942 è vice brigadiere, e assegnato alla Legione di Roma. Nel dicembre è a Torrimpietra, a 30 km dalla capitale. La situazione militare precipita; con profonda tristezza Salvo assiste allo sfacelo dell’Italia mussoliniana: il popolo soffre, e lui non si rassegna.
Viene l’8 settembre 1943, l’armistizio. I tedeschi occupano «manu militari», la parte di penisola che controllano; nello scompiglio generale l’esercito italiano senza capi e senza direttive si sbanda, si scioglie, si disperde. Ma i carabinieri no. Quando avanzano le truppe di liberazione essi non retrocedono, ancora rimangono al loro posto, fedeli alla loro gente (per questo, i nazisti nel 1944 saranno costretti a decretare lo scioglimento della loro Arma).
L’8 settembre 1943 anche i carabinieri di Torrimpietra sono rimasti al loro posto. Ma le SS hanno occupato la vicina Torre di Palidoro, quasi in riva al mare (che secoli prima serviva alla gente del borgo per avvistare le navi corsare). I carabinieri, pretendono le SS, ora avrebbero il compito di vigilare sull’incolumità dei soldati tedeschi.
Quindici giorni dopo l’armistizio, ecco il fattaccio: la bomba esplode a Torre di Palidoro, il soldato tedesco rimane ucciso, il comandante delle SS decide che è un attentato, che occorre applicare la legge marziale, che cinquanta ostaggi dovranno finire fucilati.
Ordine: scavare la fossa
Il sospetto si orienta subito sui vicini carabinieri: se pure non sono i colpevoli, essi dovevano almeno prevenire, dovevano impedire. Il mattino del 23 settembre una motocarrozzetta con due SS si presenta alla caserma di Torrimpietra. Il vice brigadiere D’Acquisto in quel momento è il graduato più alto, lo fanno salire in moto e lo portano a Palidoro.
Per Torrimpietra è un giorno come ogni altro: la gente lavora tranquilla. Verso le undici arriva un camion di SS e si ferma in piazza: i soldati smontano, sparacchiano in aria, urlano e gesticolano. Fuori tutti, mani in alto, «Raus, Raus!». «Avanti, radunarsi sulla piazza».
Ventidue persone vengono racimolate, e vengono inquadrate. Spiega un interprete: «Dunque avete saputo cosa è successo questa notte? Avete fatto atti di sabotaggio contro i nostri camerati tedeschi, e dovete essere fucilati oggi stesso in cinquanta». Bisogna salire sul camion, pigiati dentro, spinti a moschettate. Il camion parte per Palidoro, si ferma sulla piazzetta: giù tutti e ben inquadrati.
Sopraggiunge anche il vice brigadiere D’Acquisto, guardato a vista da due soldati. E c’è il comandante tedesco, alto e nervoso, con il frustino in mano: si avvicina a D’Acquisto, gli intima di guardare gli ostaggi e di indicare il colpevole.
È tutto così assurdo. Salvo potrebbe davvero puntare il dito a casaccio, salverebbe tutti gli altri, di sicuro salverebbe anche sé (forse anche la sua vita è in pericolo). Ma protesta che gli ostaggi sono innocenti, che non sanno nulla. Allora i soldati lo insultano, lo percuotono, tentano di strappargli i gradi, e non riuscendo gli strappano la giubba di dosso. «Se non si trova il colpevole – gridano –, moriranno tutti!». Poi avanti, di nuovo pigiati sul camion. «Vogliono solo spaventarvi, perché qualcuno di voi faccia il nome di un colpevole», cerca di confortarli Salvo D’Acquisto.
Allora il comandante ordina di prendere le vanghe e di scavare una fossa comune.
Un ostaggio interpella Salvo D’Acquisto: «Brigadiere, dica lei qualche cosa, ai tedeschi! Noi non siamo soldati, non siamo della polizia, non abbiamo fatto niente, non ci possono ammazzare così». D’Acquisto è chiuso in una morsa d’angoscia. Ora sa che le SS fanno sul serio, che ogni appello alla ragione e alla pietà è sprecato.
Trova la forza di dire: «Non abbiate paura, vado a parlare all’interprete», e lo raggiunge. C’è troppo baccano, lì; si appartano. Uno scambio vivace, poi insieme si recano dal comandante. «Se viene fuori il responsabile dell’attentato – domanda D’Acquisto attraverso l’interprete –, gli ostaggi saranno liberati?».
Il comandante annuisce.
È un momento di vertigine. Sotto i suoi occhi, lo scempio della patria sconfitta e calpestata, l’odio e la barbarie, e quegli innocenti portati al macello. Salvo fa dire dall’interprete: «Il responsabile sono io».
Tutti perdonati
Il comandante ha uno scatto, come colpito da una frustata. Passeggia nervoso, disorientato. Quel gesto l’ha colto di sorpresa, lo umilia.
Ma Salvo è già tornato agli ostaggi. «Che cos’ha detto?», domandano. «Sentite, io ho fatto tutto quello che potevo. Penso che non vi ammazzeranno». E dopo una pausa: «Forse vi porteranno a lavorare in Germania». E dopo un’altra pausa, come parlando a se stesso: «Del resto, una volta si nasce e una volta si muore». (Soltanto a sera, o l’indomani, molti ostaggi arriveranno a sapere a quale prezzo era stato giocato il loro destino).
Intanto la buca è terminata, il plotone dei soldati sta in disparte, armi alla mano, inesorabile. Ed ecco sopraggiungere il comandante, più stravolto che mai. Si avvicina all’orlo della buca, batte il frustino contro gli stivali, e grida al primo ostaggio: «Fuori!», al secondo: «Fuori!», e così a tutti gli altri. Gli ostaggi escono sospettosi e increduli.
Nella buca Salvo D’Acquisto è rimasto solo: «Tu, resta lì».
Gli ostaggi pensano: è la fine.
Invece l’interprete traduce: «Avete sentito che cos’ha detto il comandante? Ha detto che lui non si arrabbia, che lui è buono oggi, e che voi siete tutti perdonati».
Gli ostaggi quasi non credono, si guardano stupefatti, ridono, piangono. «E ora prendete i badili e portateli al comando».
Non se lo fanno dire due volte. Poi via, di corsa a casa, ad abbracciare la moglie, i figli, con l’incredulità e la gioia di chi torna da un viaggio durato dieci, vent’anni.
Solo uno degli ostaggi, oltre a Salvo, è stato trattenuto: un ragazzo scambiato per un carabiniere travestito in borghese, che per sua fortuna riesce a dimostrare di avere appena diciassette anni.
Ricorda: «Pochi minuti dopo sentii una voce secca, quasi metallica: “Viva l’Italia!”, e contemporaneamente, la scarica. Mi voltai d’istinto, temendo che avessero sparato su di me. Feci appena in tempo a vedere il brigadiere D’Acquisto impallidire, e cadere riverso nella fossa che noi stessi per una crudele beffa del destino gli avevamo scavato. Un graduato sparò ancora sul povero corpo crivellato un’ultima scarica, poi i soldati spinsero con il piede un po’ di terriccio sul cadavere ancora caldo, e si allontanarono».
Una ventina di giorni dopo, in piena notte, alcuni abitanti di Palidoro e Torrimpietra insieme con il parroco andarono a prendere la salma, la avvolsero in un lenzuolo, e in corteo la trasportarono al cimitero. Su quella tomba delle mani pietose presero l’abitudine di posare fiori, anche quando le truppe naziste di occupazione facevano buona guardia.
«Lei che è la mamma – hanno chiesto alla signora Ines – come spiega il gesto di Salvo, che ha affrontato così sereno la morte per salvare gli altri?».
«Prima cosa: l’amore fraterno, che lui ha sempre sentito per il prossimo, veramente. Poi, è cresciuto sano, con la religione, con la modestia, con sentimenti onesti. Poi, ha voluto andare nella famiglia dei carabinieri dove certamente ha acquistato il senso del dovere e la saggezza di uomo. Posso dichiarare che è stato Dio, che lo ha illuminato a compiere quel gesto».