In Prima Linea
O. PORI MECOI
Piero Ramello
Un salesiano in Pakistan
Del Pakistan ammiro soprattutto tre cose: la religiosità diffusa, la popolazione estremamente giovane e la sua capacità di offrire un’accoglienza semplice e generosa.
Qual è la tua “carta d’identità”?
Sono nato in un paese in provincia di Torino in una bellissima famiglia profondamente cristiana. Dalla scuola media a Lombriasco in poi, il legame con i Salesiani è ininterrotto. Ho fatto l’aspirantato a Valdocco. Dopo il noviziato, a vent’anni ho fatto la professione come Salesiano coadiutore. Terminata la formazione iniziale salesiana ho ripreso gli studi musicali diplomandomi in Musica corale e direzione di coro ed ho conseguito la laurea in Fisica.
Come hai sentito la vocazione? Perché hai preso questa decisione?
Ho trascorso molti anni della mia vita salesiana nel mondo della scuola, un ambiente congeniale al mio carattere un po’ riservato: il contatto continuo e prolungato con i ragazzi aiuta a creare legami significativi anche in assenza di esuberanza. Devo molto ai ragazzi. Non solo mi trovo bene con loro; sono soprattutto un grande aiuto. La loro freschezza e spontaneità, il desiderio di coerenza e l’atteggiamento di molti di essi di fronte alle difficoltà sono sempre stati una grossa sollecitazione al bene. Ho conosciuto diversi ragazzi costretti a portare pesi sproporzionati alla loro età, pesi dovuti a problemi grossi di salute o, più spesso, a disaccordi familiari. La loro tenacia – e anche un po’ la loro simpatia – mi hanno fatto maturare un atteggiamento positivo di fronte agli ostacoli.
Perché sei finito in Pakistan?
Non mi è mai passato per la mente di diventare missionario in paesi lontani, fino al 2016, quando l’appello che il Rettor Maggiore lancia ogni anno mi ha toccato profondamente. All’inizio il mio superiore mi ha aiutato a capire che per noi Salesiani la vita missionaria è una “vocazione nella vocazione”, non è solo dare una disponibilità in risposta all’appello del Rettor Maggiore. Ho iniziato così un cammino di discernimento durato alcuni anni. All’inizio, alcuni confratelli con cui mi sono confrontato hanno tentato di dissuadermi. “Sei troppo vecchio!”. “Hai difficoltà con le lingue straniere!”. Eppure continuava a sembrarmi che la chiamata alla vita missionaria fosse rivolta proprio a me. Dopo una settimana di ritiro e i colloqui con alcune guide spirituali, nel febbraio 2019 ho presentato la mia domanda missionaria al Rettor Maggiore che l’ha accolta, con destinazione Pakistan. Dopo il corso per missionari a Roma e alcuni mesi in Irlanda per l’Inglese, più altri lunghi mesi in attesa del visto, a 56 anni di età, nell’ottobre 2020 sono arrivato a Lahore.
Quali sono le caratteristiche del Pakistan?
I Salesiani in Pakistan sono arrivati poco più di vent’anni fa. Il pioniere è stato don Pietro Zago. Attualmente abbiamo due presenze. A Quetta vi sono due confratelli, una scuola con circa cinquecento allievi e convitto. A Lahore siamo tre confratelli provenienti da 3 continenti. Il direttore, P. Noble, è pakistano, e P. Gabriel viene dal Messico. Abbiamo scuola, centro di formazione professionale, convitto e aspirantato per un totale di oltre quattrocento ragazzi.
Del Pakistan ammiro soprattutto tre cose: la religiosità diffusa, la popolazione estremamente giovane e la sua capacità di offrire un’accoglienza semplice e generosa.
Sarà, forse, che l’Asia meridionale ha una lunga tradizione di interiorità e di vita spirituale, il fatto è che qui ogni cosa porta a riferirsi a Dio. Anche i giovani con cui vivo pregano spesso e volentieri; quando pregano, sono molto concentrati. Ciò mi fa un gran bene. Riguardo ai giovani, poi, c’è da dire che sono veramente numerosi. Più della metà degli abitanti del Pakistan sono sotto i 19 anni. Per strada si vedono bambini, ragazzi e giovani dappertutto. Tutti sono molto gentili e accoglienti.
Il Pakistan non è un paese tranquillo. Ci sono alcuni nodi problematici, come l’instabilità politica, il terrorismo, la povertà, le tensioni interne e un tasso di alfabetizzazione del 49,9%. Rimane irrisolta la questione Kashmir: India e Pakistan si odiano da quando sono nati. Inoltre, il vicino Afghanistan crea flussi di profughi e anche infiltrazioni terroristiche.
Quali difficoltà devi affrontare?
Quanto a fatiche e a difficoltà, per me la maggiore è la barriera linguistica. Il mio livello di urdu è ancora allo stadio pre-infantile. In ogni caso, i ragazzi tra di loro parlano in dialetto punjabi. A scuola i ragazzi studiano urdu e inglese dalle elementari. Pochissimi, però, sono in grado di sostenere una conversazione anche semplice in inglese, e non parlo solo dei ragazzi delle classi inferiori.
L’urdu è una lingua con influenze persiane, curde e arabe. Si legge e si scrive da destra a sinistra. L’alfabeto è composto da 36 lettere, ciascuna delle quali assume una forma grafica diversa a seconda della posizione che occupa nella parola. Nella scrittura dell’urdu vengono sistematicamente omesse le vocali brevi, che sono comunque pronunciate nella lettura (in altre parole, per poter leggere correttamente un termine, bisogna conoscerlo). Le vocali lunghe, al contrario, sono regolarmente indicate, ma possono avere suoni diversi. Ad esempio la “alif”, all’inizio di una parola, può indicare i suoni a, i, u.
Come cambiano le tue abitudini?
Una delle lezioni che sto apprendendo dal Pakistan è la disponibilità al cambiamento e alla precarietà. Imparo che i programmi possono essere modificati all’ultimo momento, magari senza un minimo preavviso, che basta un’interruzione della corrente elettrica (non infrequente) per dover reinventare sull’istante un’attività, che la qualità dei rapporti con le Autorità è legata alle disposizioni di animo (mutevoli) di una singola persona. Al riguardo, ultimamente la precarietà è vissuta anche nei confronti della possibilità, per i missionari, di rimanere in Pakistan. Pure in passato l’attesa per il visto di ingresso era lunga, ma il rinnovo annuale veniva concesso senza grosse difficoltà. Ultimamente il rinnovo del visto per i missionari comincia ad essere rifiutato o, per lo meno, come nel mio caso, arriva con molto ritardo ed ha la durata di sette mesi.
Attualmente qual è il tuo compito?
Come insegnante di Fisica, sinceramente non ho grandi soddisfazioni, a parte il calore del rapporto umano con i ragazzi. In classe ho l’insegnante di sostegno (non per i ragazzi, ma per me!) che traduce in urdu. Trovo che la scuola pakistana, per come la conosco, dia troppa importanza all’aspetto mnemonico (basta sfogliare i libri di testo) trascurando le competenze. Il livello di apprendimento è molto basso soprattutto perché la frequenza non è assidua. Un giorno capita di avere in classe ventiquattro allievi; il giorno dopo, magari, soltanto nove. Ogni tanto spunta qualche nuovo allievo e, purtroppo, qualcun altro abbandona la scuola.
Ci sono altre opere salesiane?
I Salesiani in Pakistan sono arrivati poco più di vent’anni fa. Il pioniere è stato don Pietro Zago. Attualmente abbiamo due presenze. A Quetta vi sono due confratelli, una scuola con circa cinquecento allievi e convitto.
E con quattrocento ragazzi, molti interni, e la scuola e il centro professionale davvero il lavoro non ci manca.
Come sono i giovani pakistani?
Nella nostra scuola e nel convitto abbiamo dei ragazzi d’oro, veramente generosi. Tra gli exallievi, poi, vi è Akash Bashir, un giovane che nel 2015, mentre era in servizio d’ordine presso la parrocchia del nostro quartiere, Youhanabad, non ha esitato a sacrificare la propria vita per impedire ad un attentatore di entrare in chiesa per compiere una strage.
In Pakistan la religione islamica è praticata dal 96,5% della popolazione. I cristiani sono l’1,5%, per metà cattolici e metà protestanti. Pur essendo un’esigua minoranza, dal momento che Youhanabad ha una forte concentrazione di cristiani – forse la più alta di tutto il Pakistan – non ci sentiamo affatto schiacciati dalla maggioranza musulmana. I cristiani sono fieri di mostrarsi tali, e il ricordo di Akash Bashir è molto vivo, anche come espressione di riconoscenza per aver salvato parecchie vite.
Qui tutte le persone sono molto gentili con me. Avendo ricevuto tanto da loro, spero di poter dare il mio piccolo contributo.