LA LINEA D'OMBRA
ALESSANDRA MASTRODONATO
Oltre l’abitudine...
Se vogliamo riappropriarci fino in fondo della nostra libertà e della possibilità di scegliere chi essere, al di là di qualsiasi condizionamento esterno o percorso preordinato, dobbiamo farci carico, almeno ogni tanto, della capacità di scardinare completamente il meccanismo dell’abitudine in cui siamo incastrati.
«L’abitudine è una seconda natura, e non meno potente». Così scriveva già nel Cinquecento Michel de Montaigne, evidenziando con grande acutezza come le nostre abitudini facciano parte di noi, ci identifichino, contribuiscano a definire chi siamo e in che modo viviamo la nostra esistenza.
Che ne siamo consapevoli o meno, una parte significativa della nostra vita – dai più elementari gesti quotidiani ai piccoli riti che scandiscono le nostre giornate, dalle strade che regolarmente percorriamo alle relazioni che intratteniamo con gli altri – è radicata saldamente nell’abitudine, che ci porta a reiterare in modo passivo pensieri e azioni, senza più chiederci il senso e il fine di ciò che facciamo. Come assuefatti alla ripetitività del vivere, narcotizzati da un infinito “girare in tondo” in cui ogni cosa si confonde e anche i colori sembrano sbiadire, ci abbandoniamo alla “giostra del mondo”, rinunciando a percorrere sentieri alternativi e a lasciare un’impronta originale sul nostro percorso.
Per quanto, infatti, un’esistenza vissuta all’insegna dell’abitudine possa risultare monotona e incapace di regalarci lo stupore dell’inedito, affidarci alla consuetudine e al già noto ci appare rassicurante, al punto da scambiare questa condizione di “immobile quiete” alla quale spesso finiamo per adattarci con ciò che chiamiamo felicità. E ciò è vero soprattutto per i giovani adulti, che all’incertezza del cambiamento e al brivido di una navigazione condotta in mare aperto, tra tanti pericoli e imprevedibili tempeste, non di rado preferiscono la tranquillità della bonaccia.
Del resto, non c’è da stupirsi che sia così: il cammino verso l’adultità si configura in molti casi come una vera e propria corsa a ostacoli, come uno slalom sfiancante tra insormontabili difficoltà e una endemica precarietà, per cui la conquista di una sia pur minima serenità, alimentata dalla confortante certezza della routine, ci appare come un miraggio al quale restare aggrappati con le unghie e con i denti, anche se questo significa abdicare alla ricerca di una felicità più piena ed appagante. In questa prospettiva, rivalutiamo anche le abitudini più banali che, pur nella loro stanca ripetizione, diventano sinonimo di sicurezza e ci accontentiamo di galleggiare sulla superficie del mondo, vivendo come comparse che si adattano inermi a replicare un copione sempre uguale, anziché cimentarci nella difficile arte di “reinventare” ogni giorno le nostre scelte e il nostro progetto di vita.
Se è vero, però, che – come aveva compreso già Aristotele – «noi siamo ciò che facciamo ripetutamente», di modo che coltivare delle buone abitudini può essere un modo efficace per migliorare la nostra esistenza e restituire valore alle nostre azioni, se vogliamo riappropriarci fino in fondo della nostra libertà e della possibilità di scegliere chi essere, al di là di qualsiasi condizionamento esterno o percorso preordinato, dobbiamo farci carico, almeno ogni tanto, della capacità di scardinare completamente il meccanismo dell’abitudine in cui siamo incastrati, per correre il rischio di percorrere sentieri inesplorati e concederci l’opportunità di verificare dove conducono. Solo così riusciremo a svincolarci dal circolo vizioso di ogni sterile routine e, andando finalmente oltre l’abitudine, potremo aprirci al mistero del possibile e far spazio nella nostra vita all’irrompere salvifico di «cieli nuovi e terra nuova».
E girano, girano gli uomini
sopra la giostra del mondo,
come i valzer delle cameriere
fra i tavolini alla fine del giorno.
E girano mosconi e chiacchiere
nei saloni dei parrucchieri,
girano i tacchi delle signore
a notte fonda sui marciapiedi.
E nei weekend, in processione
nei supermercati,
narcotizzati dalle occasioni,
comprare ed essere comprati.
Ed io e te, accarezzati da una gioia breve
e dal sorriso delle cassiere,
soddisfatti o rimborsati,
sommersi o salvati?
E girano, girano gli uomini
d’un dolceamaro girare in tondo,
di vecchi amanti nelle balere,
come falene alla fine del giorno.
E girano motori e femmine,
girano i cacciabombardieri,
mille caviglie, mille tagliole
intorno al pozzo dei desideri.
E nei weekend, in confessione
nei supermercati,
tra gli affettati e le comunioni,
mangiare ed essere mangiati.
Ed io e te, affaticati da un dolore lieve
e dalle trombe e dalle bandiere,
sorridenti e circondati,
sommersi o salvati?
Beato il cane al passo del padrone
e che è uno stupido per vocazione,
e che, siccome tiene un osso in bocca,
non dirà la sua opinione.
Beati tutti gli uomini per bene,
chi non sapeva e chi non vuol sapere,
e chi ha confuso l’abitudine con la felicità.
Ed io rinnego tutto prima del blackout, prima che faccia notte,
prima che il vento arrivi
e il gallo canti tre volte…
Beato il cane al passo del padrone
e che è uno stupido per vocazione,
e che, siccome tiene un osso in bocca,
non dirà la sua opinione.
Beati tutti gli uomini per bene,
chi non sapeva e chi non vuol sapere,
e chi ha confuso l’abitudine con la felicità.
E girano, girano gli uomini…
(Francesco Gabbani, L’abitudine, 2023)