In Prima Linea
Antonio Labanca - Missioni Don Bosco (fotografie di Ester Negro)
Nell’inferno del lavoro minorile
La Via Crucis di 160 milioni di bambini crudelmente sfruttati.
Hassane ha una storia costellata da tanti rifiuti. La donna che lo ha generato diciotto anni fa lavorava in un ristorante di strada a Yamoussoukro, capitale della Costa d’Avorio. Uno degli avventori ebbe una relazione con lei ma, alla notizia della nuova vita da crescere, si dileguò rifiutando ogni responsabilità. La gravidanza fu portata a termine ma il piccolo, oltre a non incontrare il padre, non ebbe neppure il diritto di vivere con la madre: venne abbandonato nelle braccia del gestore del ristorante.
L’uomo, uno delle migliaia di Beninesi emigrati in Costa d’Avorio alla ricerca di lavoro, non aveva possibilità di occuparsene. Si sentì però in dovere di trovare una soluzione in quanto era amico del partner della sua dipendente, in qualche modo si sentiva coinvolto dall’incontro fra i due. Decise così di portare il bambino in Benin, dove la sua famiglia avrebbe potuto adottarlo. Ma nel volgere di poco tempo il “nonno” morì e il bambino iniziò a stare di volta in volta in casa dei fratelli e delle sorelle del “padre adottivo” rientrato in Costa d’Avorio.
Garantita la sopravvivenza fisica, si fece tuttavia evidente la mancanza di tutela da parte degli adulti che l’avevano ospitato. Per questo, alle prime difficoltà, il ragazzo dovette abbandonare la scuola primaria, per le difficoltà nell’apprendimento ma anche per il costo che comportava mantenerlo. Fu così messo a bottega, si fa per dire, come apprendista muratore quando aveva 12 anni: un lavoro massacrante accompagnato da continui maltrattamenti. Hassane decise scappare da questa situazione senza alcuna idea di che cosa questo avrebbe comportato.
Aveva 14 anni quando il servizio di protezione dei minori lo individuò per strada e lo affidò al Foyer Don Bosco di Porto Novo. Venne inserito nei corsi di recupero per il completamento della scuola primaria e superò l’esame finale. Ora il giovane frequenta la scuola professionale per specializzarsi come elettricista edile. C’è un piano per aiutarlo a entrare nel mondo del lavoro ed essere pienamente incluso nella società.
Non mi piace lavorare qui, è sofferenza. Voglio tornare a scuola e trovare un buon lavoro.
Eisha, una ragazza di 11 anni di un villaggio dell’India
«Non possiamo restare a guardare»
La vicenda di Hassane è una fra le tante in Benin e nei Paesi vicini e ovunque nel mondo. L’espressione “lavoro minorile” indica non solo l’età dei soggetti convolti ma anche la condizione di massima vulnerabilità: vera schiavitù ed esposizione costante al pericolo di incidenti.
“Negli ultimi quattro anni il numero di bambini costretti a lavorare in tutto il mondo è salito a 160 milioni” ha riconosciuto l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) presentando nel 2021 il rapporto sulle rilevazioni dell’anno precedente. Per la prima volta insieme con l’Unicef, il direttore generale dell’Ilo Guy Ryder ha osservato che “a questa cifra si aggiungono tutti quei bambini che sono a rischio a causa dell’impatto della crisi pandemica”.
Il rapporto, pubblicato nella Giornata mondiale contro il lavoro minorile che si celebra il 12 giugno, è un termometro improvvisamente tornato a segnare temperature alte. Il progresso verso l’eliminazione del lavoro minorile ha subìto una battuta d’arresto per la prima volta in venti anni, invertendo la tendenza al ribasso che si era vista tra il 2000 e il 2016 con una diminuzione di 94 milioni di unità. “Le nuove stime sono un campanello d’allarme. Non possiamo restare a guardare mentre una nuova generazione di bambini è a rischio” ha concluso Ryder.
Un rischio fisico evidente lo corrono i bambini costretti a produrre sigarette, fiammiferi ed esplosivi in India nella regione del Tamil Nadu: intossicazione dai materiali maneggiati, pericolo costante di esplosioni. Secondo l’ultimo censimento disponibile (2011), in India ci sono oltre 10 milioni di bambini lavoratori, di età inferiore ai 14 anni, con disparità significative tra gli Stati: “il Tamil Nadu occupa un posto elevato nel muro della vergogna” spiegano i salesiani di Vellore; il loro sforzo è quello di occuparsi dei piccoli spesso costretti anche dalle famiglie a entrare nei capannoni di produzione. Le sigarette chiamate ‘beedi’ sono quasi un prodotto identitario, consumato dalla maggioranza dei fumatori indiani. Porta a numerosi effetti negativi sull’apparato respiratorio, ma un altro è di generare gravi danni al palato del fumatore. Ma anche la manipolazione del tabacco e degli altri materiali usati nella fabbricazione comporta conseguenze dannose, sotto forma di reazioni cutanee comuni a chi deve rollare i ‘beedi’ in fabbrica.
Il distretto di Vellore è noto per il lavoro minorile nella lavorazione delle sigarette. Con molti sforzi da parte dell’amministrazione distrettuale e delle organizzazioni civili negli ultimi dieci anni la maggior parte di questi bambini è stata ritirata dalle fabbriche e iscritta alle scuole. “Eppure ci sono migliaia di questi bambini che restano vincolati al lavoro e non ottengono quasi nessuna energia da dedicare alla loro istruzione” spiega fratel Lucas Gomes, direttore del Don Bosco Reach Out.
Il fenomeno dell’impiego di bambini e ragazzi nelle fabbriche ad alto pericolo ha radici sociali difficili da estirpare anche perché non tutte affiorano al suolo. La schiavitù per debiti, ad esempio. Una persona o una famiglia si trovano costrette a chiedere un prestito di denaro a qualcuno; se al momento della restituzione non riesce a fare fronte, le viene chiesto di dare ore di lavoro. Questa forma di accomodamento può prendere strade perverse fino a che il tempo da dare in restituzione diverta esorbitante. “La persona viene indotta con l’inganno e intrappolata a lavorare per una paga molto bassa o nulla” spiega padre Gomes. Il meccanismo si riversa sull’intera famiglia, “i più colpiti sono i bambini e le donne, in particolare quelli delle comunità Dalit e delle tribù emarginate”. C’è un divieto di legge, ma il lavoro vincolato è ampiamente praticato.
Ci sono anche calcoli sbagliati da parte delle famiglie più povere: sono convinte che l’alto numero di figli possa aumentare la capacità di reddito, mandandoli a lavorare in età precoce. In realtà creano un circolo vizioso perché l’apporto finanziario che porta un minore è sicuramente insufficiente al mantenimento di uno status di vita dignitoso.
Ci sono bambini che lavorano per noi in questo momento
Dappertutto. Esattamente 160 milioni in cifre ufficiali. Quelli non ufficiali sono sconosciuti. Un totale di 97 milioni di ragazzi e 63 milioni di ragazze che non prendono la cartella e vanno a scuola ogni mattina. No. Vanno nelle fabbriche, nelle miniere, nei campi, nei mercati, nei laboratori tessili, nei bordelli… A volte non si muovono nemmeno. Ci vivono dentro. Minori, tra i 5 e i 17 anni, con un mestiere, spesso senza nome. Sempre senza infanzia. Sono uno su dieci nel mondo. Nei paesi ricchi non li vediamo quasi mai, sono nascosti o mascherati. Ma nei paesi in via di sviluppo, nei più poveri, sono ovunque. Girati in qualsiasi strada ed eccoli lì: ai quattro angoli del mondo. Anche così, con occhi occidentali ci vuole tempo per vederli, per capire chi sono, perché sono lì; per capire che hanno un padrone o sono vittime della tratta o del contrabbando… Quando ci troviamo in luoghi vulnerabili assumiamo la miseria circostante e, con essa, normalizziamo la loro condizione di bambini lavoratori come parte del paesaggio. Come se lo meritassero per essere nati dove sono nati. Come se non ci fosse nessuna anomalia, nessuna causa, nessuna opzione.
I piccoli minatori colombiani
Una situazione analoga a quella indiana si verifica in Colombia, dove le famiglie gestiscono esse stesse lo sfruttamento dei figli per l’estrazione del carbone dalle miniere abusive. Il Paese è tra i maggiori esportatori di carbone al mondo; nell’anno della prima epidemia di Covid (il 2020) la produzione scese a 48,4 milioni di tonnellate, la metà circa di quanto estratto l’anno precedente (82,4 milioni di tonnellate). Per l’attività estrattiva si paga un tributo pesante: 82 minatori deceduti nel 2019, raddoppiati l’anno seguente. Se il pericolo incombe nelle strutture regolari, è di portata maggiore quando l’attività estrattiva si svolge fuori dagli impianti industriali: il 60% dei decessi è da imputare infatti alle attività minerarie illegali.
Il problema è dato dall’esistenza del ‘mercato nero’ (è il caso di dirlo) del carbone. Una rete di trafficanti abusivi provvede a ritirare quanto estratto dalle famiglie, paga poco il prodotto ma ha buone possibilità di venderlo agli stessi prezzi del mercato legale. La debolezza del sistema di imprese regolari, penalizzate dalla pandemia, ha favorito questa economia sommersa. Nelle città di Amagá e di Angelópolis, nell’area mineraria di Sinifaná, vivono famiglie in cui l’attività di minatori di frodo si è tramandata da generazioni. I figli vengono impiegati per percorrere le gallerie abbandonate o per scavarne di nuove: le loro ridotte misure corporee rendono penetrabili questi cunicoli.
A parte l’immaginabile rischio della vita e le pesanti conseguenze sulla salute derivate dal lavoro in ambienti senza luce e con esalazioni dannose ai polmoni, il risultato è che metà dei ragazzi in età scolare non frequenta più la scuola, uno su cinque rimane analfabeta. Le famiglie alle loro spalle sono incapaci di pensare a un cambiamento. Il consumo di droghe e di alcool, la disgregazione familiare, le violenze e gli abusi, la prostituzione minorile sono le conseguenze a cascata di questo ‘inferno’ economico. Le bambine sono il terminale più penalizzato se si considera l’alto numero di gravidanze, frutto di stupri anche in famiglia.
I salesiani a Medellin vanno incontro alle necessità sociali ed educative delle persone più povere. Recentemente il fronte di intervento si è allargato all’area mineraria di Sinifaná. La loro azione è secondo tradizione quella di offrire delle alternative ai minori incominciando dal recupero scolastico per arrivare a dare ospitalità nei casi più difficili. Ma qui si è presentata l’urgenza di uno scatto in avanti della progettazione: i figli di don Bosco vogliono passare dall’inseguimento del problema a un cambiamento radicale. “Oggi proponiamo un progetto sociale alternativo affinché padri e madri partecipino attivamente alla salvaguardia dei minori” spiega don Carlos Manuel Barrio di Ciudad Don Bosco, “dialogando con le autorità locali abbiamo messo in campo un programma psicosociale e pedagogico rivolto a 150 famiglie”. Si stanno elaborando modelli di impresa per costituire alternative all’estrazione del carbone (considerata anche la prospettiva di una riduzione del suo consumo per via della conversione ‘green’): l’agricoltura potrebbe creare lavoro pulito, sano, aggregante.
Se le ‘Giornate mondiali’ servono a tenere viva l’attenzione su un problema, si devono poi trovare le strategie per contrastare i fenomeni negativi nella concretezza di ogni situazione. Si tratta di ricostruire l’autostima dei ragazzi liberati dal lavoro forzato oltre che dotarli di risorse materiali. I salesiani nel mondo continuano a farsi carico di proporre ai ragazzi la frequenza della scuola, nei casi più difficili di dare loro ospitalità. Si punta a ricostruire l’identità di persone violate e di farle vivere come chiede la loro età.
Negli stessi giorni di pubblicazione del rapporto Ilo-Unicef sul lavoro minorile, Hassane in Benin ha conseguito il Certificate of Primary Studies. Padre Aurelien J. Ahouangbel che si è occupato di lui è fiero di vedere “il desiderio di apprendere in piena libertà la professione, consapevole della sua situazione e determinato per il successo del suo futuro”. Un ‘figlio di nessuno’ ha trovato paternità.
I progetti riferiti in questo articolo sono sostenuti dall’Italia da Missioni Don Bosco.
Per maggiori informazioni consultate il sito www.missionidonbosco.org
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