I GRANDI AMICI
ARTHUR J. LENTI
Il teologo Borel
La lapide commemorativa nell’Oratorio di Valdocco così recita: «Teologo G. Battista Borel – insigne cooperatore e benefattore – del nascente Oratorio – ebbe dal Beato Don Bosco la lode – di amico intrepido e di sacerdote santo.
Era piccolo di statura, tanto che lo chiamavano “l’ previot”, il pretino. Ma a Torino tutti gli volevano bene.
A Torino, Giovanni Borel era nato il 1° luglio 1801, in una famiglia profondamente cristiana. Seguì le scuole primarie quando il Regno Sabaudo era sotto il regime napoleonico, a sedici anni prese l’abito da chierico e, frequentando la chiesa del Corpus Domini, la chiesa del Miracolo Eucaristico, conobbe san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Era universitario quando, nel 1821, scoppiarono i primi moti risorgimentali. Il 21 maggio 1824 fu proclamato dottore in teologia, il 18 settembre, a soli 23 anni, fu ordinato sacerdote e per far pratica di ministero si iscrisse al biennio di una Conferenza Morale. Fu nominato “chierico della cappella del re”, partecipava così alle accurate funzioni per Re Carlo Alberto e la Regina Maria Teresa che si tenevano nella cappella della Sindone o nella cappella di Palazzo Reale. D’umile statura, di belle maniere, era amato da tutti. Nel 1831 fu promosso cappellano regio. Dieci anni dopo, però, rinunciò al prestigioso incarico per appagare maggiormente il proprio zelo sacerdotale. Il suo apostolato si intrecciò con l’attività dei santi che hanno reso Torino famosa nel mondo. Fu amico e collaboratore del Cottolengo, di don Bosco e di sua mamma, del B. Marcantonio Durando. Conobbe il B. Federico Albert, S. Leonardo Murialdo, il B. Michele Rua, la B. Enrichetta Dominici, S. Domenico Savio, il B. Francesco Faà di Bruno. Il 29 dicembre 1840 fu nominato direttore spirituale del Rifugio della Marchesa Giulia di Barolo, una casa di accoglienza per ex-detenute e ragazze a rischio: fu il più importante impegno della sua vita. Per anni seguì numerose giovani, alcune delle quali si fecero religiose.
Instancabile
Giovanni Borel fu un sacerdote instancabile: svolse il suo ministero in conventi, collegi e parrocchie. Fu impegnato tra i poveri abitanti di Borgo Dora e nelle “missioni” fuori città, anche d’inverno. Ebbe una profonda amicizia con S. Giuseppe Cafasso, anche don Borel infatti svolse per lunghi anni assistenza ai carcerati. Faceva loro catechismo e li confessava, conquistandoli con l’aria gioviale che lo contraddistingueva. Predicarono insieme, alcune volte, gli esercizi spirituali: il Cafasso lo considerava tra i migliori oratori della città, le sue omelie erano profonde ma semplici, se necessario faceva uso del piemontese.
In Borgo Dora, poco distante dalle Opere della Marchesa di Barolo, nel 1832 san Giuseppe Benedetto Cottolengo fondò la “Piccola Casa della Divina Provvidenza”. Borel fu testimone privilegiato della sua istituzione e vi collaborò per oltre dieci anni, finché gli impegni glielo permisero. Le sue testimonianze al processo di beatificazione del Santo, nel 1866, furono preziose. Altro suo grande amico fu Giovanni Bosco, fin dai tempi del seminario di Chieri quando Borel andò a predicarvi gli esercizi spirituali. Era l’autunno 1837, don Bosco annotò: «Dal primo momento che ho conosciuto il teologo Borel ho sempre osservato in lui un santo sacerdote, un modello degno di ammirazione e di essere imitato. Ogni volta che poteva trattenermi con lui aveva sempre lezioni di zelo sacerdotale, sempre buoni consigli, eccitamenti al bene».
Don Bosco grazie al Cafasso e a Borel, nell’autunno 1844, fu assunto come cappellano per l’erigendo Ospedaletto di S. Filomena. Don Bosco ebbe per alloggio una camera a fianco di quella di Borel. Il Santo pensò di radunarvi i ragazzi che in San Francesco non poteva più accogliere: la domenica il giardino del Rifugio venne festosamente invaso da tanti giovani, ma non era lo spazio adatto. Si trasferirono provvisoriamente presso la cappella di San Martino ai Molini dove don Bosco conobbe Michelino Rua, un ragazzo di otto anni che sarebbe stato il suo successore. San Giovanni Bosco cessò d’essere cappellano dell’Ospedaletto di S. Filomena, Giulia di Barolo però negli anni non mancò di fargli pervenire generose offerte per la sua opera.
La Pasqua del 1846 fu memorabile: don Bosco poté festeggiarla con i suoi ragazzi tra i prati di Valdocco dove gli era stata offerta in affitto la tettoia Pinardi. Borel stipulò il contratto assumendosene la responsabilità.
Con i birilli in piazza
Nel luglio 1846 don Bosco cadde gravemente ammalato e tornò ai Becchi, tra le natie colline astigiane, lasciando tutto nelle mani di don Borel che lo sostituì nella direzione dell’oratorio. Al suo ritorno, in autunno, trovò tanti nuovi ragazzi che poté aiutare grazie alle generose offerte del Cafasso e di Borel. In novembre si trasferì a Valdocco Mamma Margherita che trovò in quest’ultimo il suo padre spirituale. Molte volte don Borel giocava ai birilli sul piazzale di Valdocco e con qualche espediente faceva in modo che i ragazzi varcassero il cancello affinché don Bosco li avvicinasse.
Carissimo per le sue rare qualità a monsignor Fransoni, arcivescovo di Torino, era stato da questi prescelto all’ufficio di direttore spirituale nelle istituzioni fondate dalla Marchesa Barolo, e fu appunto a lui che si rivolse il Cafasso perché volesse accettare presso di sé, nella Pia Opera del Rifugio, don Bosco che, per aver finito ormai gli studi al Convitto Ecclesiastico, correva pericolo di venir destinato vice-parroco in qualche parrocchia con rovina dell’Oratorio festivo che egli aveva così bene avviato nella chiesa di San Francesco d’Assisi.
Quanti ricordi del teologo Borel potrebbe rievocare la cappella Pinardi, dov’egli teneva quelle sue istruzioni piene di brio, con cui incatenava l’attenzione del suo irrequieto uditorio! Egli, che vedeva crescere ogni domenica le falangi giovanili nelle adiacenze di casa Pinardi, fu il primo ad approvare il progetto della fondazione del secondo Oratorio di San Luigi a Porta Nuova, e fu pure il primo ad avere le intime confidenze di don Bosco sull’avvenire dell’opera sua: per questo egli rimase fedele a lui in quel memorabile 1848 quando tutti gli altri lo avevano abbandonato.
«Cipollae cipollarum!»
Lo zelo del teologo Borel si spingeva più oltre. «Viveva parcamente. Gli faceva la cucina un servitore bramoso di studiare da prete: appunto per secondarne il desiderio egli l’aveva preso con sé, nascondendo la propria carità sotto quell’insignificante servigio e mandandolo alle scuole dell’Oratorio. Orbene, una veneranda suora delle Maddalene, diceva che talvolta le suore domandavano al buon uomo che cosa avesse ordinato per pranzo il suo padrone, e quegli invariabilmente rispondeva: – Cipollae cipollarum! – Un giorno costui si azzardò a muovergli qualche osservazione su tanta parsimonia di mensa, e il virtuoso sacerdote: «Quanto più si risparmia a tavola, disse, tanto più si può aiutare don Bosco!».
Quanto amasse don Bosco lo dimostrò la sera del 25 marzo del 1869. Don Bosco tornava da Roma dopo lunga assenza. Il teologo Borel, gravemente infermo nell’ospizio del Rifugio, sentendo nell’Oratorio il suono della banda e gli evviva e i battimani, capì che era arrivato don Bosco e profittando del momento che chi lo custodiva l’aveva lasciato solo, balzò dal letto, si vestì, scese le scale tenendosi alle pareti e appoggiandosi ad un bastone, uscì dal Rifugio, percorse il tratto di via Cottolengo ed entrò nell’Oratorio. Attraversato a stento e barcollando il cortile, giunse sotto i portici mentre don Bosco, attorniato da tutti ì giovani, metteva il piede sul primo gradino della scala che conduceva alle sue camere.
«Oh don Bosco! Oh don Bosco!» si sforzava di gridare con voce fioca il teologo. I giovani fecero largo.
«Oh teologo!» rispose don Bosco voltandosi prontamente.
«La Pia Società è approvata?»
«Sì, è approvata!»
«Deo gratias! Ora muoio contento!» Non aggiunse parola, ma, voltandosi, tornò com’era venuto, rientrò in casa sua e si rimise a letto.
Ben presto riprese a deperire e la sera del 9 settembre del 1873 rese la sua bell’anima a Dio.