BS Febbraio
2023

QUELLI CHE LO HANNO CONOSCIUTO

Testimonianze giurate al processo di Santità di don Bosco

Il piccolo orfano del colera
Pietro Enria, coadiutore salesiano

«Ho conosciuto don Bosco nel settembre 1854 nel convento dei Domenicani, ove si raccoglievano i fanciulli rimasti orfani a causa del colera che imperversava ovunque».

Pietro Enria, nato a S. Benigno Canavese (Torino) e trasferitosi con la sua famiglia a Torino, rimase orfano a 13 anni nel colera che spopolò Torino nel 1854. Fu accettato da don Bosco nell’Oratorio insieme al fratellino di 11 anni e a una cinquantina di altri orfani. Visse i tempi d’oro dell’Oratorio accanto a Giuseppe Buzzetti, Michele Rua, Giovanni Cagliero, Domenico Savio, sotto gli occhi di Mamma Margherita.

Fu il delicatissimo infermiere di don Bosco nel 1871 nel grave malore che lo colpì a Varazze, e anche nel 1887-88 durante l’ultima malattia.

Testimoniò nel «processo di santità» di don Bosco dal 27 gennaio all’8 febbraio 1893, davanti ai giudici ecclesiastici canonico Molinari, canonico Ramello e canonico Pechenino. Le sue testimonianze sono contenute nel manoscritto del processo ordinario, copia pubblica, nei fogli 982-1043.

Sono Enria Pietro Giuseppe, nativo di S. Benigno Canavese (Torino) d’anni 52. Appartengo alla Congregazione salesiana come laico professo.

Ho conosciuto don Bosco nel settembre 1854 nel convento dei Domenicani, ove si raccoglievano i fanciulli rimasti orfani a causa del colera che imperversava (in Torino e in Italia). Ivi un giorno venne don Bosco a visitarci (eravamo un centinaio) accompagnato dal direttore dell’Orfanotrofio. Io non l’avevo mai visto, aveva un’aria ridente e piena di bontà che si faceva amare prima ancora di parlargli. Fece un sorriso a tutti, e poi domandava nome e cognome, se sapevamo il catechismo… Passò finalmente vicino a me e io mi sentii battere il cuore non per timore ma per affetto che sentivo verso di lui. Mi domandò nome e cognome e poi mi disse: «Vuoi venire con me? Saremo sempre buoni amici finché possiamo andare in Paradiso. Sei contento?». E io risposi: «Oh, sì, signore». Poi soggiunse: «E questo che hai insieme è tuo fratello?». «Sì, signore», risposi. «Ebbene, verrà anche lui».

«La mia mamma e quella di don Bosco»

Pochi giorni dopo fummo condotti tutti e due all’Oratorio. Io avevo 13 anni e mio fratello 11. Mia madre era morta di colera e mio padre era tutt’ora aggravato dal male. In quell’occasione don Bosco ricevette nell’Oratorio una cinquantina di poveri orfani. Da quel momento io restai sempre nell’Oratorio di don Bosco, dove egli e sua madre ci accolsero con amore.

Noi guardavamo la madre di don Bosco come la nostra, e le portavamo un grande amore. Era una donna di grande amor di Dio e di una carità ardente più che materna.

Nel 1854, quand’io entrai all’Oratorio, i giovani erano in numero di circa quaranta, e in quell’anno arrivarono a cento.

Don Bosco portava un grande amore verso sua madre, ne parlava con venerazione, e alla sua morte si mostrò afflittissimo. Ci disse in quell’occasione: «Abbiamo perduto la madre, ma sono certo che essa ci aiuterà dal Paradiso. Era una santa!». Don Bosco non esagerò nel chiamarla santa, perché essa si sacrificò per noi, e fu per tutti una vera madre.

Un ragazzo povero e insolente

Ricordo che nel 1857 accettò nell’Oratorio un giovane che le guardie della città trovarono abbandonato in un angolo di piazza Castello, tutto intirizzito dal freddo. Dopo qualche giorno don Bosco stesso lo condusse presso un falegname onesto cristiano in Torino, raccomandandolo alla sua cura. Il giovane per due settimane si conservò buono e docile, ma poi per la sua indisciplinatezza quel padrone fu costretto a congedarlo. Don Bosco pazientò, e lo condusse a un altro padrone, ma anche questi dopo appena una settimana dovette congedarlo, e ciò continuò per circa due anni. Si può dire che ha fatto perdere la pazienza a tutti i padroni della città. Quando fu congedato dall’ultimo padrone, tornò all’Oratorio e andò difilato in refettorio dove don Bosco si trovava a pranzare, e gli disse che il padrone l’aveva congedato, e quindi gli cercasse un altro padrone. Don Bosco gli rispose: «Abbi pazienza, aspetta che abbia finito di pranzare. E tu hai già pranzato?»

«Sì» rispose il giovane.

«Allora aspettami» soggiunse don Bosco. Ma il giovane così rispose: «Voglio che venga subito».

Allora Don Bosco si volse verso di lui e gli disse: «Non vedi che non c’è più nessuno che ti voglia accettare nel suo laboratorio, perché sei la disperazione di tutti? Non vedi quanti padroni hai già stancato? Se continui su questo passo non verrai capace di guadagnarti un pezzo di pane».

Il giovane uscì dal refettorio, e poco dopo senza dire parole ad alcuno se ne andò. Fece il commesso da caffè, il soldato, esercitò altri mestieri.

Un giorno cadde ammalato, e durante la convalescenza si recò all’Oratorio e si presentò a don Bosco. Gli domandò perdono dei dispiaceri che gli aveva dato. Don Bosco lo confortò, gli disse che gli voleva sempre bene e che aveva sempre pregato per lui. Gli soggiunse ancora: «Guarda, l’Oratorio è sempre casa tua. Quando starai meglio, se vuoi venire don Bosco è sempre il tuo buon amico, che altro non cerca che la salvezza dell’anima tua». Ho udito questo fatto dal giovane stesso.

La gravissima malattia di Varazze

6 dicembre 1871. Mentre si trova alla stazione di Varazze, don Bosco cade a terra svenuto. I presenti lo portano alla casa salesiana diretta da don Francesia. La malattia si rivela gravissima. Don Rua invia da Valdocco ad assisterlo Pietro Enria. Questa la sua testimonianza giurata riguardante questo avvenimento.

Io partii subito, pronto a dare la mia vita purché don Bosco riavesse la salute. Don Bosco era riconoscente al più piccolo servizio che gli facevo, e mi ringraziava con gran cuore. Alcune volte, dovendogli fare dei servizi un poco ributtanti, mi diceva:

«Vedi, Enria, a che stato sono ridotto. Fa’ questo per amor di Dio!»

E io gli rispondevo: «Ma che cosa dice, signor don Bosco? È nulla quello che io faccio per contraccambiarlo di quello che egli ha fatto per me e per i miei compagni. Eh! lei ha fatto per noi dei servizi ben più bassi. Ci ha lavato, pettinato, ha cucito i nostri abiti, ha fatto per noi quello che potevano fare solo le nostre mamme, e ancor più di esse. E non vuole che le faccia questi servizi? Quanti dei miei compagni si chiamerebbero fortunati se potessero essere al mio posto!»

Ricevevo da Torino lettere piene di tenerezza filiale. Giuseppe Buzzetti, mio compagno, mi diceva: «Guarda, Enria, nostro padre è nelle tue mani, guai a te se non lo assisti bene, ne avrai da rendere conto a Dio! Digli che noi preghiamo di gran cuore il Signore e Maria Ausiliatrice che presto torni tra noi in salute».

Intanto il male peggiorava e la febbre aumentava sempre. L’eruzione dei migliari (vescichette dure a forma di grani di miglio che si formavano sulla pelle) era copiosissima e gli dava molto tormento. Ma egli non si lamentava mai. I suoi affanni erano sempre per noi che temevamo di perderlo, e ci diceva con gran fede: «Dio provvede agli uccelli dell’aria, perciò penserà pure ai poveri figli dell’Oratorio».

Intanto da Torino volevano notizie, e io non potevo darle buone perché il male era sempre grave. Molti giovani dell’Oratorio, come seppi poi, erano andati in chiesa all’altare di Maria Ausiliatrice e avevano offerto a Dio la vita per la conservazione di don Bosco. Sentendo leggere queste e altre lettere, don Bosco pianse di consolazione e disse: «Poveri giovani, quanto amano questo povero don Bosco!» e m’incaricò di ringraziarli.

Don Bosco volle confessarsi dal parroco, e don Francesia, direttore della casa, gli portò l’Eucaristia nel giorno seguente. Don Bosco passò quella giornata in ringraziamento.

Il giorno dopo il male si calmò alquanto. Non si lamentava, e a chi gli diceva: «Quanto deve soffrire!», rispondeva ridendo: «Io sono un pigro e sto godendomi questo letto, e chi soffre sono quelli che mi devono assistere».

Un ragazzo che piangeva

La malattia fece il suo corso. Don Bosco dovette stare a letto più di due mesi senza muoversi. Aveva la pelle della schiena rotta in più luoghi e cambiò tutta la pelle. Eppure non mosse un lamento e diceva sempre d’essere nelle mani di Dio, pronto a fare la sua volontà.

Mentre era gravemente ammalato, sentì un ragazzo piangere. Non poté resistere e mi disse subito: «Fa’ il piacere, Enria, va’ a vedere che cos’ha quel ragazzo». Corsi, e seppi che era un giovinetto che piangeva perché era partita sua madre che era venuta a trovarlo. Il cuore di don Bosco non poteva resistere che i suoi giovani soffrissero.

Godeva quando qualcuno gli parlava dei primi anni dell’Oratorio. Io sovente, mentre era ammalato, gliene parlavo: «Si ricorda, don Bosco, quando sua madre lo sgridava perché accettava sempre nuovi ragazzi? Essa gli diceva: “Tu ne accetti sempre, ma come si fa a mantenerli, a vestirli? In casa non vi è nulla, e comincia a far freddo!”. Capitò a me di dover dormire parecchie notti sopra poche foglie con addosso non altro che una piccola coperta. E alla sera, quando noi eravamo a letto, lei, don Bosco, e sua madre ci aggiustavate i pantaloni e la giacca logora, perché ne avevamo una sola». Don Bosco sorrideva al sentir questo, e diceva: «Quanto ha faticato la mia buona mamma!… santa donna!… Ma la Provvidenza non ci è mai mancata!».

Il giorno in cui don Bosco scese di letto, io telegrafai a Torino all’amico Buzzetti, e si fece gran festa all’Oratorio, e si suonò la banda musicale.        

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