MEMORIE
MARCO BONGIOANNI
Il fratello di Domenico Savio
Giovanni Ambrè Roda era stato raccattato da don Bosco a Porta Palazzo, sul mercato degli aspiranti garzoni. Don Bosco se lo era portato a Valdocco, lo aveva presentato a Mamma Margherita, e affidato alle «cure» di Domenico Savio. A novant’anni ancora ricordava e raccontava di quei tempi avventurosi, e di quel clima di famiglia che fu il segreto di don Bosco.
Giovanni Ambrè Roda era nato lo stesso anno di Savio, nel 1842, il 27 ottobre. Sùbito il colera gli aveva portato via il padre e la madre. Una famiglia amica, forse in qualche modo parente, lo aveva allevato fino all’età «maggiorenne» dei 10-12 anni. A quel punto, come tutti i ragazzi poveri del tempo, bisognava andare a guadagnarsi il pane. Era andato anch’egli a Porta Palazzo, nei viottoli dei Molassi e del Balon, sul mercato dei bocia, degli aspiranti garzoni in gran parte muratori, ma anche fabbri sellai e barbieri… L’«esposizione» di quella precoce mano d’opera era piuttosto fitta, un ragazzino vi scompariva dentro. Tuttavia lui era stato scoperto là.
Anche in mezzo alla folla don Bosco aveva il colpo d’occhio sicuro sull’individuo, sapeva inquadrare il dettaglio, e nemmeno quella volta sbagliò. Puntò preciso su quel passerotto intirizzito dalla bruma del novembre piemontese. Chi sei, come ti chiami, hai ancora i genitori, hai già fatto la comunione e via dicendo. La conclusione fu quella di sempre: don Bosco invitò il ragazzo ad andare con lui.
Come due fratelli
«Gli sono andato dietro – dirà molti anni più tardi l’Ambrè Roda – come un cagnolino. Abitava in un caseggiato non molto lontano, una specie di cascinale con la chiesina bell’e nuova di fianco. Arrivati al cancello, prima di attraversare un cortile, ha chiamato forte: «Mamma, venite un po’ qui, venite a vedere chi c’è». Ha gridato proprio così, ricordava, facendo festa, come quando arriva un parente o un figlio. Poi ha chiamato Domenico, che io ho conosciuto in quel preciso momento. Così ho conosciuto Mamma Margherita e Domenico Savio, che aveva la mia stessa età, e che era arrivato un poco prima di me».
Domenico era entrato nell’oratorio il 29 ottobre di quell’anno stesso, tre o quattro settimane prima. Ma una istantanea confidenza reciproca tra lui e don Bosco era già scattata ai Becchi fin dal primo lunedì del mese, quando il ragazzo si era presentato a fare conoscenza. A Valdocco era diventato immediatamente «di casa». Niente nostalgie di famiglia o di campi: ed è anche lì un indice della grande alternativa «familiare» che si godeva con don Bosco in casa Pinardi.
Altrettanto bene, per sua testimonianza, venne subito a trovarsi Giovanni Ambrè Roda, che prese a considerare «casa sua» l’Oratorio e vi stette (con le interruzioni «militari» di mezzo) oltre una quindicina d’anni.
Incominciò così. «Don Bosco – sono parole sue – metteva d’abitudine qualche buon ragazzo a fare da angelo custode a qualche altro ragazzo un po’ più desbela (vivace); e io dovevo essere proprio un desbela con i fiocchi se mi capitò la fortuna di avere Domenico a tenermi d’occhio. Abbiamo fatto tanta amicizia che ero sempre io a cercarlo: andavo dietro di lui, giocavo con lui, studiavo con lui. E lui mi aiutava, mi dava consigli, a patto che mi comportassi come si deve, che smettessi di fare il monello come a Porta Palazzo. Eravamo come due fratelli».
Domenico era una festa
La testimonianza che ora segue è una «scheda» ricostruita su altre confidenze dell’Ambré, appuntate quando egli le fece (1932: aveva ormai 90 anni, ed era ancora sano diritto e vivace come l’antico desbela dell’oratorio), ma scritte dal confidente senza la preoccupazione di doverle poi consegnare ad alcuno. Succede che anche dei molteplici appunti personali contengano qualche originalità e possano fare storia.
Domenico era una festa. «Domenico era abilissimo a giocare. Giocava bene, molto bene, e sapeva vincere. Le poche volte che perdeva non se la prendeva, ci rideva sopra, era un tipo abbastanza allegro. A cirimela sembrava un Ercole scatenato. Con quel bastone che maneggiava così bene, e con quella linguetta un po’ fuori dei denti, batteva il bastoncino con una forza che lo mandava a finire lontano, fiii, che era una bellezza.
Era piuttosto minuto di statura. Avevamo la stessa età, pochi mesi di differenza. Nemmeno io ero un gigante, ma lui era un po’ più minutino di me. Mostrava meno degli anni che aveva, ma era del ’42 come me, era della stessa classe 1842. All’Oratorio c’erano anche dei garzoni più grandi e grossi di noi, erano destaca-salam (spilungoni) di 18-20 anni che poi partivano anche militari. Grandi grossi e robusti che quanto a forza ci avrebbero vinto dieci volte. Lui però sapeva tenere testa, faceva valere le sue buone ragioni, sempre educato ma sempre molto deciso. Ah, non si lasciava mica mettere il piede sul collo. Qualcuno, si sa, era un po’ sboccatino, conservava il gergo di Porta Palazzo, aveva certi modi di fare che a don Bosco piacevano poco o niente. Domenico, con belle maniere: tu ti sei dimenticato dei patti, avevi promesso questo, ti eri impegnato per quello, perché non hai detto così, era meglio se facevi cosà… Non era mai pesante, era sempre convincente e simpatico, aveva un ascendente su tutti.
Gli ubbidivamo come a un superiore, perché era talmente buono… Otteneva quello che era giusto, sempre senza discussioni. Tutti gli dovevano qualche cosa di bene, quindi nessuno trovava da ridire quando metteva le sue piccole condizioni; era anche furbo, ma voleva solo il giusto.
Raro che qualcuno lo trattasse in malo modo. Se succedeva, quelle poche volte, lui filava zitto zitto e se ne andava in chiesa. Dava solo un’occhiata triste, e se ne andava…
Una volta don Bosco ci ha mandati insieme tutt’e due ai Becchi. Da soli, si capisce, lui e io da soli. Quella è stata una gran bella sgambata attraverso le colline e i campi. Ne facevamo altre di sgambate, ne facevamo molte. Non solo ai Becchi, ma in altre parti. Ci mettevamo il tempo che ci voleva, ma passando per traverso, per le scorciatoie, neanche troppo. Tre quattro oracce buone, si arrivava. Avevamo buona gamba. Mamma Margherita quella volta era già là, era partita prima.
Quel giorno dunque via. Abbiamo saltato, scherzato, riso come due merli. Ma non perché eravamo fuori: fuori andavamo sempre a volontà, non eravamo mica in collegio. Don Bosco era una famiglia, teneva sempre le porte aperte. Si andava in città dove si voleva. Glielo dicevamo, si capisce, ma quando faceva bisogno andavamo fuori come chiunque. Andavamo a scuola, andavamo a comprare, andavamo per commissioni… Andavamo persino a vedere i saltimbanchi a Porta Palazzo, eravamo delle masnà (bambini). Bé, quella volta con Domenico è stata una festa. Aveva quel modo gentile di fare, di parlare, di segnarsi e dire una preghiera insieme davanti ai piloni, alle chiese. Ma poi infilava subito la strada e via di corsa. Prendimi se riesci…
Siamo arrivati ai Becchi tutti sudati, rossi come d’pito (tacchini). E mamma Margherita a farci lavare la faccia nel catino. Poi è andata nella stalla, ha preso una scodella di legno, ha munto la vacca, ci ha fato bere quel latte appena munto. Buono, ma buono… Un po’ di pane e burro con un pizzichino di zucchero… Ah è stata una festa quella volta. Il giorno dopo è arrivato don Bosco con il grosso della truppa. Noi eravamo solo l’avanguardia…».
Da monello a gentiluomo
Quando Domenico Savio se ne andò per sempre, l’amico rimase all’Oratorio. A 17 anni si presentò volontario nell’esercito: era il 1859, quando per il Piemonte si dichiararono guerra Napoleone III di Francia e Francesco Giuseppe d’Austria. Lo arruolarono perché suonava bene la tromba (l’aveva imparata con Cagliero). Ma non andò al fronte, era così giovane. Lo congedarono quasi subito, e poiché la sua casa era solo l’Oratorio, ritornò con don Bosco.
Sette anni dopo scoppiò la terza guerra per l’indipendenza italiana. Allora lo richiamarono. Era il 1866, il «ragazzo di Don Bosco» aveva 24 anni, andò in prima linea. Combatté una tragica battaglia a Custoza e toccò a lui, come prima «cornetta», far squillare i segnali del famoso «Quadrato di Villafranca» eretto in difesa del futuro re Umberto I. Dopo di che fu sempre musico a palazzo reale.
Da monello a gentiluomo. Quando si formò una famiglia fu ancora don Bosco a consigliarlo e persuaderlo. «Don Bosco era mio padre», soleva ripetere il vivacissimo orfano raccattato una mattina d’autunno nei viottoli della vecchia Torino.
Chi lo conobbe così «onesto cittadino e buon cristiano» ha potuto farsi un’idea dell’orma che due santi – don Bosco e Domenico Savio – hanno potuto lasciare nel cuore di un desbela.