BS Gennaio
2022

IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE

ANS

Don Giuseppe Nicolussi

morto a El Campello, il 22 aprile 2021, a 94 anni

Quando don José Carbonell incontrò i suoi confratelli, dopo essere partito dalla Spagna per le Filippine, gli fecero osservare che i suoi occhi si erano stretti all’orientale e perfino la sua pelle aveva preso tonalità gialle: era l’evidenza di un missionario calatosi con tutto se stesso nella cultura locale.

Nato ad Alcoy nella provincia di Alicante, dopo la professione salesiana a 19 anni i suoi superiori lo mandarono a formarsi a Torino, per studiare filosofia a Rebaudengo e poi teologia alla Crocetta. Nella città di don Bosco si nutrì delle memorie salesiane fino a che fu ordinato sacerdote nella Basilica di Maria Ausiliatrice: un curriculum che lo destinò, una volta rientrato in Spagna, a occuparsi della formazione dei giovani confratelli e in breve ad assolvere all’incarico di ispettore a Valencia.

Fu chiamato nelle Filippine, dove approdò nel 1975. “Tutti conosciamo il suo dinamismo giovanile, le sue straordinarie doti di governo, la sua profonda formazione salesiana, il suo tatto e la sua comprensione, la sua esemplarità religiosa, la sua dedizione totale all’ispettoria e ai fratelli” scrisse il Rettor Maggiore don Luigi Ricceri nell’affidargli la massima responsabilità salesiana in quel Paese.

Per lui fu la scoperta nel gran continente asiatico di un popolo speciale, l’unico a professare a gran maggioranza il cristianesimo. Con vero entusiasmo spiegava che “l’opera di Don Bosco ha un grande sviluppo nelle Filippine, e i salesiani sono inseriti perfettamente”. La collaborazione, sincera e simpatica, dei laici era un elemento decisivo: “La gente è generosa fra tutte le classi sociali, risponde al 100 per 1 sotto tutti gli aspetti. In ogni sede c’è un gruppo di ragazzi che si formano per essere catechisti. Le parrocchie danno l’insegnamento di religione nelle scuole”.

I salesiani si impegnavano a non lasciare nessuno sulla strada: giovani e adulti descolarizzati erano invitati a frequentare dei corsi accelerati per abilitarsi ad un lavoro professionalizzato nei settori della marina mercantile, della meccanica e della saldatura, dell’elettronica, della cucina e dell’ospitalità alberghiera: 1600 diplomati ogni anno.

Questa capillare attività sociale e pastorale era attraente per i giovani Filippini, fra i quali maturarono molte vocazioni religiose che di lì a poco si sarebbero proiettate in un numero consistente di nuovi missionari diretti in Tailandia, Etiopia, Papua. Un fermento che portò lo stesso don José ad avvedersi di nuove opportunità di evangelizzazione fuori dalle Filippine.

Da ispettore decise così di aprire la missione salesiana in Papua Nuova Guinea, guidando lui stesso l’avanguardia composta da don Valeriano Barbero (italiano), da don Rolando Fernández(filippino) e dal coadiutore José Kramar (jugoslavo). Lasciati questi pionieri, inviò successivamente altri tre confratelli.

Lo spirito di don José non poteva limitarsi a gestire l’esistente, convinto che le Filippine fossero un trampolino verso tutta l’Asia. Dieci anni dopo il suo arrivo a Manila, prende il volo per l’Indonesia, dove sarà il primo missionario salesiano. Questo Paese presenta un quadro religioso inverso a quello lasciato alle spalle: la stragrande maggioranza dei 190 milioni di abitanti, sparsa su 14 000 isole, è islamizzata da molti secoli mentre alcune isole sono a maggioranza buddhista. “I musulmani hanno a Jakarta una enormità di centri” osserva don José, “Io non mi spiego come possa essersi radicato così tanto l’Islam in quelle terre. Qui c’è come un “Vaticano” di dimensioni colossali”.

Ma scoprì che don Bosco era già arrivato in Indonesia prima di lui. Venne accompagnato a visitare una vecchia scuola professionale dei fratelli di Nostra Signora di Lourdes. Percorrendo un corridoio, don José vide lasciata in un angolo a impolverarsi una statua del Santo: “Che ci fai qui?” domandò istintivamente a voce alta. Gli sembrò di udire una risposta: “Ti stavo aspettando”. Lo stesso giorno fu invitato a pranzo da una famiglia. In attesa di sedersi a tavola, diede uno sguardo alla televisione che in quel momento stava trasmettendo un programma religioso. Qui la seconda inattesa visione: una statuetta di Maria Ausiliatrice appoggiata sullo scatolone catodico. Non ebbe la sfrontatezza di rivolgere la stessa domanda del mattino, ma ugualmente sentì dentro di sé la stessa risposta.

Il confronto stretto con altre religioni porta don José a riflettere sulla sua identità di sacerdote. Quando un musulmano o un buddhista gli chiedevano di celebrare il sacramento del perdono, lui non si sottraeva e concludeva il rito dicendo: “Che Dio ti perdoni come io ti benedico”. In un ambiente ecumenico straordinario, i suoi colloqui personali e le sue conferenze da teologo annunciavano la bontà e la misericordia di Dio.

Ormai anziano, don José rientrò in Spagna. Tornò a gustare finalmente quei peperoni rossi ripieni di riso, carne e pomodoro che gli erano tanto mancati durante la sua lunga migrazione, i “bajocchi farciti” tipici della sua Alcoy. Nel suo cuore però continuava a pensare alle nuove frontiere missionarie in Russia e in Cina, come confidò una volta al Rettor Maggiore Juan Edmundo Vecchi. Il quale gli rispose: “Pensa all’Indonesia”.

La sua speranza allora fu di tornare in estremo Oriente, la terra da dove per noi sorge il Sole, da dove proviene, nelle tradizioni spirituali, l’illuminazione divina. Non poté attuarla fisicamente ma con la preghiera sì: con la gratitudine per aver incontrato i popoli generosi che abitano quelle terre e con la convinzione che da loro sorgeranno quei missionari che in futuro potranno dare nuovo vigore ai fedeli in Europa.

Con questi pensieri don José si è spento il 22 aprile del 2021, all’alba di un nuovo giorno.

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