LE CASE DI DON BOSCO
B.F.
Don Jimmy Direttore del primo oratorio salesiano
«Sono nato in Rwanda, e cresciuto in Italia, ci vivo da quasi trent’anni: un “piemontese D.O.C” con un’abbronzatura invidiabile».
Puoi presentarti?
Sono don Jimmy, “prete da poco”, come dico scherzando con i ragazzi. Già, perché sono stato ordinato prete neanche tre anni fa: il 2 giugno 2018. Vi dico anche il cognome, ma se poi non lo leggete, comprendo: Muhaturukundo. Età? 34 anni compiuti. Sono nato in Rwanda, e cresciuto in Italia, ci vivo da quasi trent’anni: un “Piemontese D.O.C” con una “abbronzatura invidiabile”. Se amo l’Italia? Moltissimo. L’Italia e gli Italiani! L’italiano che ammiro di più? Don Bosco.
Come ti è venuta la vocazione?
Mi è difficile pensare alla vocazione come un “mattone che ti colpisce in testa”. Forse l’ho sempre avuta… e se mi guardo indietro vedo la vocazione come un “filo rosso”: le tracce che Dio ha lasciato nella mia vita per dirmi: ti voglio bene al punto che ho scelto te! e questo filo rosso è fatto di persone. Alcune di queste hanno lasciato il segno dentro di me. Le ricordo come le più significative: la prima tra tutte è senza dubbio mia mamma. Conservo un ricordo felicissimo di lei. Indelebile! Con lei ho vissuto solo 7 anni, la mia prima infanzia: eppure posso dire con certezza, e con immensa gratitudine, che se sono diventato l’uomo che sono oggi, lo devo a lei anzitutto!
Dio l’ho conosciuto sulle ginocchia di mamma. Ricordo con chiarezza quando lei, cessato di lavorare, mi prendeva con sé e si metteva a giocare con me come se fosse la cosa più importante del mondo. E tra un gioco e l’altro mi raccontava “di questo Gesù”, che io non avevo idea di chi fosse… ma più lei procedeva nel racconto, più io ero catturato, stupito: in assoluto però, oggi so, che non è il racconto in sé a convincermi: ma gli occhi di mia madre mentre raccontava. C’era luce nei suoi occhi quando parlava di Gesù: una luce limpidissima. Serena. Ho imparato crescendo, e credo sia esperienza comune, che chi mente lo sguardo lo nasconde. Quando lei mi teneva in braccio e parlava di lui era luminosa, viva!
In casa vivevamo: lei, io, mia sorella, più piccola di me di un paio di anni. Papà lo abbiamo perso quando avevo circa tre anni, credo per colpa della malaria… comunque, mia madre ad un certo punto ha fatto una scelta che deve esserle costata parecchio, perché so il bene che mi voleva: mandarmi a vivere lontano da casa, in un centro missionario. Lì avrei potuto studiare, ed avere una possibilità di futuro.
È così che ho conosciuto padre Minghetti: la seconda traccia indelebile della mia vita. Ricordo il mio arrivo nella missione a Nyamata come una delle cose più impressionanti. Tenete conto che non avevo mai visto un uomo bianco. Immaginate lo sbigottimento quando mi sono trovato di fronte a quest’uomo con la pelle bianca, i capelli bianchi, barba bianca, e per di più vestiva una tunica bianca! Tra me e me dicevo: quest’uomo è proprio strano! Forse sta male, possibile che nessuno se ne accorga?
Nel 1994 in Rwanda è scoppiata una terribile guerra civile! In quella guerra ho perso mia mamma e mia sorella.
Un giorno, i guerriglieri sono entrati nella Missione. Inseguivano i malcapitati che venivano a cercare rifugio in casa nostra. Lo ricordo quel pomeriggio: hanno fatto irruzione, e don Minghetti si è presentato davanti a loro nel cortile della missione. Noi ragazzi eravamo chiusi in casa, nascosti sotto i tavoli. Gli è stato intimato di consegnare i fuggiaschi, o saremmo morti anche noi. Non lo ha fatto. Ho sentito un colpo di fucile: uno dei fuggitivi era stato scoperto e “giustiziato” sul posto. E il fucile ora era puntato al petto di padre Minghetti. È rimasto lì, di fronte a quel fucile, ma non ci ha consegnati, tanto che io sono qui, a raccontarvi di questo. Non ho altre parole per dirlo se non chiamarlo miracolo: quegli uomini, per qualche ragione se ne sono andati lasciando libero lui e noi.
Crescendo mi sono domandato: con quale forza quest’uomo, che non era nemmeno mio padre è rimasto di fronte ad un fucile per me? Chi glielo fa fare? E ho ricordato gli occhi di mia mamma: ecco che cosa avevano in comune: Gesù! Padre Minghetti lo nominava spesso. Come se fossero vecchi e cari amici. Ecco che tornava di nuovo: la forza della verità! E lo si può seguire. Esser come lui, e liberi: anche dalla paura di morire. Quindi vivere, vivere veramente! Crescendo non ho potuto non pensarci!
Una sera sono venuti a chiamarci in camerata, io che ero già a letto, sentendo dire “vieni, andiamo”, mi sono alzato, convinto che facessimo un gioco notturno, e invece in cortile ci attendeva un bus diretto all’aeroporto. Da lì saremo poi arrivati in Italia.
«Noi ragazzi eravamo chiusi in casa, nascosti sotto i tavoli. Gli è stato intimato di consegnare i fuggiaschi, o saremmo morti anche noi. Non lo ha fatto. Ho sentito un colpo di fucile: uno dei fuggitivi era stato scoperto e “giustiziato” sul posto. E il fucile ora era puntato al petto di padre Minghetti. È rimasto lì, di fronte a quel fucile, ma non ci ha consegnati.»
Un salesiano, una famiglia e una biografia
La mia terza traccia è di un salesiano: ci siamo conosciuti quando io ero ragazzo, giovane animatore all’Oratorio di Trino Vercellese. Lui, Matteo, studiava teologia alla Crocetta, si preparava a diventare prete e, il sabato e la domenica, e nei giorni in cui non “andava a scuola”, veniva mandato in oratorio da noi, “in apostolato” si dice. Mi ha coinvolto nell’animazione, nel servire i ragazzi: ricordo in quel periodo mi dedicai con sincera passione ai ragazzi delle medie che avevamo in oratorio. Ho sempre amato molto leggere, di tutto.
Un giorno ho letto la biografia di don Bosco, ed è stato merito di una suora Figlia di Maria Ausiliatrice, che ha mantenuto una promessa fattami mentre eravamo in pellegrinaggio per Lourdes… di quel libro ricordo ancora oggi il titolo: “don Bosco alla ribalta”. Leggendolo ho capito Matteo, l’Oratorio, ho trovato finalmente quello a cui avrei potuto somigliare: sono innamorato di Francesco d’Assisi, di Madre Teresa… ma li sentivo fuori portata, ecco: quando invece ho letto che all’Oratorio di don Bosco “la santità consiste nello stare molto allegri” mi sono detto con soddisfazione e con vera pace: ecco! Questo posso farlo anche io! Non solo posso, ma voglio.
Quando poi Matteo ha lasciato l’oratorio ed è andato a Valdocco, di tanto in tanto mi chiamava, e mi diceva: perché non vieni a trovarmi un giorno? E io l’ho fatto: e il giorno è diventato una settimana, la settimana un mese, il mese un anno. Ed ora eccomi qua: l’anno è diventato una vita!
Quarta ed ultima traccia di Dio, che ha lasciato un segno indelebile: la mia “famiglia adottiva”. Dopo essere venuto in Italia con don Minghetti ed aver vissuto con lui e gli altri ragazzi venuti con me dal Rwanda a Vercelli, sono andato in affidamento ad una famiglia di Trino Vercellese. Papà Emor e mamma Marinella: prima di accogliere me avevano già aperto la loro casa ad altri ragazzi che la famiglia non l’avevano più o l’avevano “a pezzi”. Un papà e una mamma con la vocazione di essere “Casa Famiglia”. Papà Emor e mamma Marinella hanno 5 figli, tutti fratelli per me: ci uniscono un profondo affetto e una grande complicità. Tutti: dal più grande che oggi ha 40 anni, al più piccolo, che ne ha 20. E abbiamo una inossidabile nonna di 90 anni.
Il giorno che ho detto loro che andavo via di casa, per “stare con don Bosco”, la mamma ha detto, commossa, una cosa proprio da mamma: “ho sempre sognato, pregato, che un giorno uno dei miei figli mi dicesse di voler diventare prete”.
Sei il vero successore di don Bosco, come direttore dell’Oratorio di Valdocco
Certo per me essere alla guida del primo Oratorio di Don Bosco, in quella che non solo per noi salesiani, ma per tutta la Famiglia Salesiana, è un po’ la culla, “la nostra Betlemme”, lo sento come un grandissimo onore! Un dono che mi supera immensamente; lo dico sovente anche ai ragazzi che ho in oratorio, specialmente agli animatori: sento con percezione chiara che questo Oratorio non è mio, nemmeno della Comunità salesiana a cui appartengo e neanche dell’ispettoria. È dei quattordicimila e più salesiani sparsi nel mondo! È di tutta la Famiglia Salesiana. E a me, a noi, è dato il dono e la responsabilità di custodirlo come un preziosissimo tesoro!
Quali sono le difficoltà e i problemi che devi affrontare?
In tempo di covid non vale più il “si è sempre fatto” così. Forse è davvero passato il tempo in cui gli oratori aprivano i portoni e i ragazzi accorrevano. Costringe a pensare, a cercare vie nuove, per dare risposte a bisogni reali! Ad esempio: siamo sicuri che tutti i ragazzi del nostro quartiere possano fare sempre serenamente lezione a casa online? Sicuri che ne abbiano i mezzi, e che il solo stare a casa sia poi così salutare per loro? E allora perché non immaginare che l’oratorio possa – diversamente forse da “come si è sempre fatto” – almeno per alcuni di questi mettere a disposizione spazi e mezzi, perché possano almeno frequentare qualche ora di lezione più agevolmente?
Tra i problemi e le difficoltà che vedo all’orizzonte c’è: una realtà in cui i poveri sono sempre più poveri! Dico e mi dico, di dover cominciare a pensare come fare per venire in aiuto all’anziano isolato che non può andare a fare la spesa… al bimbo che non può giocare a pallone, ma non ha il tablet o lo smartphone per giocare a Fortnite per ore… alla famiglia che non arriva più a fine mese.
Forse però la difficoltà più grande sarà quella di rieducare i ragazzi ed anche noi a relazionarci con persone in carne ed ossa. La sfida che ci attende è quella di riscoprirci fatti per la relazione in carne ed ossa!
Che cosa sogni per l’Oratorio di Valdocco?
Che cosa sogno per l’oratorio di Valdocco? Quello che sognava don Bosco credo: che ogni giovane che varca queste porte possa sentirsi a casa sua! Sogno un oratorio in cui i ragazzi non debbano “essere bravi in qualche cosa” o avere chissà che per esser considerati. Un oratorio in cui basta che siano giovani per essere amati! Bartolomeo Garelli sapeva solo fischiare, eppure don Bosco ancor prima di conoscerlo, dice ad alta voce schierandosi dalla sua parte: è un mio amico! Mi ha sempre colpito come inizia la loro amicizia: due battute, don Bosco che si rende disponibile ad aiutarlo, e una semplice preghiera. Nasce così l’oratorio: da don Bosco, un ragazzo che sa solo fischiare, e Maria!
Sogno un oratorio che sia come quello degli inizi: che sia non di un singolo ma di una Comunità che per come vive e lavora insieme, fa fare ai ragazzi esperienza di Chiesa, e fa desiderare loro di mettersi nella scia e seguire don Bosco. Sogno, alla fine, che a Valdocco accada ancora di vedere il sogno realizzarsi: gli animali che diventano agnelli, e gli agnelli pastori.
Come sono i ragazzi e i giovani?
Devo dire, a proposito di vedere il Sogno realizzarsi ancora e ancora a Valdocco, che noi qui abbiamo fondate speranze. Perché abbiamo bei ragazzi, bravi giovani! Come sono? Di tutti i tipi e di tutte le culture! Certo in qualcuno “il punto accessibile al bene”, è da cercare un po’ di più, ma si trova sempre! Scherzi a parte. C’è davvero tanta “buona stoffa!” e anche un’ottima équipe educativa! Per questo ho fondate speranze che con quella buona stoffa potremo fare “un bell’abito per il Signore”.
La cosa che mi ha colpito di più di questi ragazzi al mio arrivo: sono immediati e semplici. Sono stati accoglientissimi da subito. E questo non solo nei miei confronti: ho iniziato quest’avventura insieme ad un’educatrice nuova nell’ambiente, e anche lei è stata accolta allo stesso modo. Ci diciamo spesso che una delle cose che rende bello stare qui, è proprio la semplicità di questi ragazzi. È appena qualche mese che sono qui, ma mi hanno fatto sentire subito a casa al punto che mi pare di star con loro da sempre: si riesce senza molto sforzo a ridere, scherzare, come pure pregare, discorrere di cose serie e profonde e anche del più e del meno.