IL LORO RICORDO È BENEDIZIONE

SILVIO ROGGIA

Don Italo Spagnolo

Morto a Torino, il 26 novembre 2020, a 79 anni

«Durante le elementari ero un bambino buono, intelligente, calmo, studioso, un bravo chierichetto. Il mio amico viceparroco pensava di mandarmi in seminario ma allora costava troppo. I miei genitori lavoravano nelle fabbriche tessili del Biellese e ai figli degli operai veniva offerto un mese di colonia estiva al mare, a Vallecrosia dai Salesiani. Mi sono trovato bene. Così tra qualche conversazione e qualche lettera con la famiglia, la decisione fu presa: cominciai la Scuola Media nell’Aspirantato Salesiano di Casale Monferrato nel 1952.
Dopo la terza media bisognava prendere una prima decisione. Mi sono confidato con mamma. Mi ha incoraggiato: “Se il Signore ti vuole prete e Salesiano, io non farò altro che ringraziarlo per la tua vocazione”. Nel 1968 venivo ordinato sacerdote salesiano.
Nel 1980 parte il “progetto Africa”. Mi sono accostato all’Ispettore e gli ho sussurrato: “Io mi rendo disponibile per il Progetto Africa”. “Mettilo per iscritto”, mi ha risposto, senza una parola in più. In camera, ricordo bene, mi sono inginocchiato per una breve preghiera e “l’ho messo per iscritto”. Il giorno seguente ho consegnato la lettera».
Così don Italo Spagnolo è stato “seminato” in Africa.
Più che un albero ciò che è nato in Nigeria dal 1982 in poi è una vera foresta, non solo in quel paese, il più popoloso dell’Africa (206 milioni secondo le statistiche di quest’anno), ma anche negli altri quattro paesi di lingua inglese dell’Africa Occidentale dove siamo presenti: Ghana, Liberia, Sierra Leone, Gambia. La grande maggioranza infatti dei Salesiani che oggi portano avanti e fanno crescere scuole, centri per ragazzi di strada, oratori, parrocchie, laboratori e scuole tecniche, hanno accolto e fatto germogliare il seme della loro vocazione salesiana proprio a Ondo, la comunità che don Italo ha fondato e che anno dopo anno dal 1982 è stata il vivaio delle vocazioni salesiane per questi paesi, dove ci sono ora 169 salesiani (94% locali) in 20 centri, e 13 novizi.
La prima è quella di avere scavato solchi profondi: più che solchi fondamenta; tante fondamenta! Lo prendevamo in giro chiedendogli ad ogni nuovo inizio se quella fosse l’ultima posa della prima pietra, visto che di laboratori, aule, chiese, case, ostelli ne ha costruiti davvero tanti. Molto più importante che la semina di prime pietre è stata la semina dentro i cuori della gente.
Don Italo ha saputo sempre cogliere il positivo, la risorsa, il seme di futuro, senza mai lasciarsi andare allo scoraggiamento, anche quando le situazioni erano veramente difficili, con gli scossoni che provenivano da continui imprevisti. Il commento che ho raccolto dalle sue labbra e che non ho mai più dimenticato è stato di sole 3 parole: “Tutto è grazia!” Non era una battuta, ma la cifra dello sguardo profondo che ha animato la sua vita sempre.
Don Italo ha anche sperimentato come i semi diventati germogli e piantine per crescere devono essere trapiantati. Di trapianti ne ha vissuti molti, sempre impegnativi e non facili, ma intrapresi con uno spirito di fede, obbedienza e povertà. Dopo essere stato fondatore, iniziatore, costruttore di tutto quello che quel grande centro di Ondo è stato e continua ad essere, senza esitazione ha accettato di passare in seconda linea e lasciare le redini ad altri, mentre lui rimaneva nella stessa comunità occupandosi di altri servizi. Dopo qualche anno gli è stato chiesto di migrare dalla Nigeria al Ghana. Ricordo benissimo il giorno della partenza. Tutto quello che ha portato con sé dopo 21 anni in Nigeria, era una vecchia valigetta (di quelle che si usavano molto prima che si inventassero i trolley) che non ha avuto alcun problema a passare al check-in come bagaglio a mano.
Lì ha dovuto ricominciare da capo, imparare una nuova lingua, come direttore e parroco a Sunyani, nel centro Ovest del paese. Ha continuato a seminare prime pietre fino ad arrivare poi ai tetti e a completare la nuova Chiesa parrocchiale, il noviziato, e tante aule, case per insegnanti, pozzi e cappelle nei villaggi rurali affidati alla missione salesiana. Ricordo un simpatico episodio quando finalmente Nana Italo – nana in Twi, lingua del posto, significa anziano o capo, ed è anche il titolo che si dà al parroco – … quando Nana Italo finalmente aveva imparato abbastanza bene il Twi, una domenica ha chiesto al catechista del villaggio rurale dove si recava quella volta per la messa se era meglio che usasse l’inglese o il Twi per la liturgia e per il commento al vangelo. Il catechista che traduceva ha risposto: “Fai pure come credi tanto qui non capiscono né l’uno né l’altro”. La maggioranza infatti era composta da migranti del nord del paese che parlavano altri dialetti.
Ma don Italo non è stato soltanto un uomo di imprese grandiose realizzate con mezzi super essenziali, fondazioni, prime pietre o nastri da tagliare. È stato un seme di amicizia capace di entrare in qualunque tipo di terreno. Ha saputo relazionarsi con tutti, ambasciatori e Re, come con la gente più comune nei villaggi più remoti. Ha saputo lasciare una traccia nel cuore di tanti giovani e come ha detto in un’intervista: «Vivo con gioia ed entusiasmo la mia vocazione salesiana, come agli inizi. La vocazione salesiana è onnicomprensiva: ci dà il senso di Dio e di lavorare incondizionatamente per il suo Regno, totalmente liberi; ci dà la gioia della comunità che ci sostiene in ogni circostanza; ci offre un campo d’azione stupendo: stare e lavorare con i giovani ed essere vicino alla gente con lo spirito di don Bosco gratifica immensamente. Ci si dona, ci si sacrifica, si ama e si è ricambiati».

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